Secondo appuntamento con i docu-film del ciclo “Il racconto del reale”, su Sky Atlantic arriva Selfie Surgery - Vorrei essere il mio avatar, il docu-film di Beatrice Borromeo che racconta, attraverso le seguaci di questa nuova moda, come avviene la ricerca del nuovo "io". Appuntamento domenica 20 novembre alle 23.15. Nell'attesa leggi l'intervista a Beatrice Borromeo
di Helena Antonelli
Modellare il proprio fisico come quello dei propri avatar digitali è la nuova moda, un po’ “inquietante”, che si sta affermando tra i più giovani. Selfie Surgery - Vorrei essere il mio avatar, in onda domenica 20 novembre alle 23.15 su Sky Atlantic, è un docu-film che indaga sulle ferite e le sorprese che accompagnano la ricerca del nuovo "io" e i contesti sociali in cui tutto questo sta diventando, ancora una volta, quasi normale. Ma le applicazioni degli smartphone e i filtri per eliminare le imperfezioni non bastano più. Questo interessante progetto realizzato da Beatrice Borromeo, spiega come la maggior parte delle giovani donne (18-25 anni), bombardate sui social network da queste “proiezioni di perfezione”, fa così tanto abuso di queste app da aver creato negli anni un avatar che somiglia all’originale ormai solo da lontano. Così, per ricongiungersi con la propria immagine virtuale si ricorre alla chirurgia plastica. In fondo perché accontentarsi di relegare la versione migliore di se’ solo sui social network?
Beatrice Borromeo con Selfie Surgery - Vorrei essere il mio avatar, ci porta a conoscenza di questa piccola realtà che sempre più sta dilagando tra i giovani. Leggi l’intervista.
Come è nato questo progetto?
Stavo facendo delle ricerche legate al fenomeno della chirurgia estetica nei ragazzi quando mi sono resa conto di un'altro aspetto molto interessante. Molte di queste operazioni chirurgiche vengono dettate dalle immagini che i ragazzi hanno di loro stessi grazie o per colpa dei social network. Un fenomeno che coinvolge i giovani, ragazze ma anche i ragazzi, che sempre di più usano filtri e app varie per modificare le proprie fotografie e creare il proprio avatar. Secondo il loro punto di vista si tratta di una visione migliore di se stessi, senza difetti.
Cos’è che secondo lei spinge i ragazzi ad usare la chirurgia?
Si tratta di una sorta di disagio dovuto ad una dissociazione della realtà. Molte delle ragazze che ho intervistato si vergognavano addirittura ad uscire di casa, a frequentare alcuni gruppi di persone poiché il loro aspetto fisico non assomigliava all’immagine postata su Instagram, Facebook o Snapchat. Questo le ha spinte ad applicare un filtro perenne su se stesse in modo tale da non dover più modificare le proprie fotografie.
Quanto è diffuso il fenomeno della Selfie Surgery?
Credevo si trattasse di un piccola realtà ma facendo delle ricerche ho scoperto che in America si parla già di milioni e milioni di operazioni chirurgiche. All’inizio di Selfie Surgery ho infatti voluto riportare alcuni dati significativi tenendo conto anche delle motivazioni che spingono i giovani ad entrare in sala operatoria come ad esempio quella di ottenere il selfie perfetto.
Qual è la situazione in Italia?
In Italia non ci sono delle statistiche oggettive, si tratta di un fenomeno ancora poco conosciuto. Ho avuto modo di parlare con molti chirurghi italiani e mi hanno confermato che le motivazioni alla base di queste operazioni sono dettate dalla speranza di avere un immagine sociale il più perfetta possibile.
Insomma dalle app alla chirurgia il passo è sempre più breve!
È tutto più semplice e più accessibile. Instagram, ad esempio, già nella sezione cerca propone delle cose. Se la ricerca si focalizza su nasi, seni o labbra, lo stesso social comincia a suggerirti profili di chirurghi. Quando stavo girando il documentario ho fatto lo stesso tipo di ricerca su Instagram e sono stata bombardata, in veramente poco tempo, da ogni tipo di pubblicità.
Un ritocco chiama l’altro?
Una ragazza mi ha detto: Per me andare dal chirurgo è come andare dal parrucchiere! Parliamo di una dipendenza dovuta anche dal fatto che non ci si ricorda più come si era prima dell’operazione. È come se ogni volta fosse un nuovo punto di partenza. Fare qualcosa a se stessi per evitare di gestire un disagio interno. Mi cambio fuori così non devo stare a pensare quello che non va di me internamente. Nel documentario non vado ad analizzare solo casi così estremi.
C’è una presa di coscienza da parte delle pazienti?
Assolutamente no. La facilità con cui queste ragazze da un consulto per un “ritocchino” finiscono in sala operatoria per sottoporsi a delle operazioni di chirurgia vera e propria è una delle cose che più mi ha lasciata senza parole!
Tra tutte, c’è qualcosa che più l’ha lasciata di sasso?
Una cosa che non mi aspettavo è che c’è una mancata presa di coscienza anche da parte dei genitori e non solo delle ragazze. Le madri, in particolar modo, assecondano molto queste ossessioni, anzi manie, delle figlie e l’operazione chirurgica è diventata ormai il regalo di compleanno perfetto.
Si può parlare di una moda?
Tendo a fare delle fotografie di certi fenomeni senza generalizzare troppo. Più andiamo veloci più restiamo in superficie e più danni facciamo a noi stessi senza però capire cosa c’è di noi che veramente non ci rende felice. La Selfie Surgery ha poi delle conseguenze nelle ragazze che si ritrovano, dopo essersi sottoposte alle operazioni, ad avere una crisi d’identità non riconoscendosi.
Che figura è quella della Surgery Advisor?
Mette in contatto i chirurghi con i loro potenziali pazienti e non solo, essendosi sottoposta a diversi interventi, dà consigli a chi vorrebbe farne. Il corpo diventa un macchinario che può essere modificato un pezzo per volta. Il processo di accettazione di se stessi viene completamente stravolto se non rimosso.
Che fotografia ci restituisce Selfie Surgery?
Gli interventi voluti da queste ragazze non hanno niente a che fare con difetti evidenti. Sono la ricerca di una sorta di perfezione che le spinge a cambiare, uno dopo l’altro, pezzi del loro corpo, motivate e incoraggiate dai social network. Sempre di più, senza l’opzione “ripristina” se il risultato non piace. E la questione che si pone ha a che fare più che con l'estetica, con la perdita o conquista, della propria identità.