La sfida di una storia senza “il bene”, il crime come specchio del nostro tempo. Ecco alcune interessanti (e condivisibili) riflessioni di Roberto Saviano, autore del romanzo a cui la serie è ispirata, sull’importanza e sulla necessità del raccontare il male.
Note di Roberto Saviano
Ha vinto l’ostinazione. Questo quello che penso ora che vedo realizzata la seconda stagione di Gomorra - La serie. Ricordo quando progettai di realizzare una serie da Gomorra. Mi avevano scoraggiato tutti gli amici, o almeno i pochi rimasti. In Italia si associava una serie tv ad una sorta di banalizzazione del film, annacquamento del libro, utilizzo di un brand. Non era una cosa scontata realizzare una serie televisiva con qualità, complessità, rigore. C’erano anche una serie di problemi di tipo produttivo: il progetto che avevo in mente, e che poi condividemmo con tutta la squadra di sceneggiatori, era che non doveva esserci “il bene”.
Dal primo momento avevo in mente una storia che costringesse a misurarsi con il male, non ad evitarlo parteggiando per la figura positiva. Questo creava un ulteriore problema produttivo perché con queste dinamiche non si era realizzato nulla in Italia. Non avevo precedenti. A quel punto l’incontro con Cattleya e Sky è stato fondamentale, perché hanno creduto nella mia idea e hanno dato il via al progetto. L’arrivo di una straordinaria squadra con cui scrivere la sceneggiatura e una squadra di registi ha reso l’esperimento un’officina esaltante.
La questione fondamentale dietro ogni buona serie è capire perché questa debba avere una necessità. Quando scende a fondo delle dinamiche che ci paiono le più ovvie, una serie riesce ad avere risonanza nel pubblico e quindi si fa necessaria. Dietro alla storia di una famiglia, dunque, c’è il racconto di un paese, di un’economia, di relazioni tra gli uomini e del rapporto tra gli uomini e la loro vita e morte. Gomorra - La serie diventa il racconto di come la morte sia la vera differenza nelle dinamiche di potere: se sei disposto a vivere per la tua famiglia, se sei disposto a vivere per il tuo lavoro, se sei disposto a vivere per i tuoi soldi, se sei disposto a vivere per il potere, se sei disposto a vivere per le donne non vali. Devi essere disposto a morire in ogni momento e a uccidere in ogni momento. Questo ti rende un uomo (o una donna) capace di comandare. La predisposizione alla morte.
È questo che abbiamo cercato, fin dal primo momento, di raccontare. La ferocia è semplicemente un capitolo, una sfumatura. L’alchimia che aggancia lo spettatore a una serie scatta quando, pur osservando una storia diametralmente lontana dalla propria quotidianità, ne percepisce in maniera nitida la continuità. Come può farlo raccontando crimini o massacri così distanti dalla vita dello spettatore? Mostrando che la testa di un boss ragiona esattamente come quella di un amministratore delegato o del direttore di un supermercato o di un Primo Ministro: il potere ha un’unica dimensione e ha sempre la stessa logica. Il crime diventa così un potentissimo mezzo per velocizzare i meccanismi umani e predatori, liberandoli da ogni patina di mediazione. Il crime sintetizza meccanismi che sono tipici dei rapporti umani in qualsiasi contesto, da un ufficio a una qualsiasi famiglia di provincia, meccanismi liberati dai filtri sociali, morali e che possono rendere un’immagine fedele del proprio tempo. Dietro un’esecuzione, dietro una scelta di potere ci si riconosce e questo eccita e dispera al contempo. Foucault diceva che per capire una società bisogna visitarne le carceri, gli ospedali e le caserme: quei luoghi dove il potere non si può camuffare, quei contesti nei quali non è più in grado di fingere di agire in quanto legittimato.
Allo stesso modo il racconto criminale rende in fiction la vita nuda, lo schifo umano così com’è. Senza filtri. La follia irrazionale umana così come la strategia più puntuale e analitica. Ecco perché piace il crime, è la verità sulla vita, la vita nuda. Nient’altro. Il crimine rappresentato e raccontato può diventare una sorta di scuola criminale per chi lo osserva? Questo è senza dubbio un tema molto delicato e rischioso, perché se utilizzato come sofismo può essere molto convincente, sì, ma per una mente che non vuole approfondire. E’ molto semplice dire: un ragazzo spara in televisione e quindi un ragazzo simile farà lo stesso, ma è tutto molto più complesso.
Innanzitutto dovremmo vietare Shakespeare per non incentivare al complotto, alla pazzia, al suicidio, vietare l’Iliade e le sue passioni forti, pericolose e violente. Vietare Ariosto, perché di tradimenti, scuoiamenti, massacri, o concezione dell’onore fondata sulla lama e sulla sfida i classici dell’umanità sono ricolmi. Ma tralasciando questo argomento che, benché convincente, finisce per brandire la storia letteraria come mezzo di difesa, in questi anni ho ascoltato, e chissà per quanti continueranno a dirlo, l’adagio “un film che racconta il crimine trasforma una mente semplice che lo osserva in una mente criminale”. È un sofisma. Così come nessun film che racconta il bene trasfigura le periferie o le realtà criminali, allo stesso modo la complessità dell’arte è troppo molteplice e colma di sfumature per affrontare la realtà in modo così meccanicistico e furbesco.
Mi permetto di dire furbesco perché si è spesso accusato Gomorra di essere un racconto negativo del territorio. Per la seconda stagione c’è stato un grado maggiore di collaborazione col territorio, ci si è resi conto che la narrazione va al di là dei paradigmi del Bene e Male. Il peggior modo per omaggiare il bene è renderlo scontato, il più importante favore che si può fare al male è renderlo prevedibile, irreale, facile. La narrazione è già di per sé una forma d’arte, e che una forma d’arte si realizzi sul territorio è un bene. Gli attentati di camorra degli ultimi mesi superano non solo il racconto di Gomorra ma anche l’ipocrisia che in tutti questi anni ha travolto il progetto. Raccontare significa conoscere, conoscere significa trasformare.
Possono esistere soltanto racconti fatti male e racconti fatti bene. Si commette un grande errore quando si mettono in conflitto il racconto della bellezza e del talento con il racconto delle contraddizioni e della ferocia: sono racconti paralleli, che devono coesistere e non essere messi in conflitto l’uno con l’altro. Raccontare il male pretende talento, conoscenza della bellezza, capacità. Come non capirlo. Non aver paura della complessità, questo è ciò che chiedo a me stesso quando ideo una serie, un film, un libro. Essere complessi è l’unico modo – ne sono persuaso – per creare una serie capace di attrarre pubblico che non vuole solo intrattenersi ma capire, sentire, cambiare.