Dardust: “L’album Urban Impressionism racconta la nascita di un nuovo me”

Musica
Fabrizio Basso

Fabrizio Basso

Credit Emilio Tini

Un ritorno alle origini per l'unico artista "iconaclasta", capace con la sua arte di frammentare le situazioni e colorare i pensieri, aumentando la nostra percezione della realtà. Due dati speciali a Milano e Roma, rispettivamente il 12 e il 14 marzo 2025, poi il il 18, sempre di marzo, parte da Barcellona il tour europeo. L'INTERVISTA

Urban Impressionism (Artist First e Sony Masterworks) è Dardust che, col suo pianoforte, si mette a nudo. È il suo album più essenziale nel quale esplora nuove combinazioni di suoni e contrasti per aumentarne la vividezza. Dardust torna a sfidare ancora una volta le convenzioni della musica neoclassica/contemporanea e lo fa abbattendo i confini tra le arti, unendo musica e architettura, armonizzando i contrasti ma partendo da nuove fonti d'ispirazione. Da un lato le geometrie architettoniche delle periferie urbane, dal brutalismo al post-modernismo, che in musica si traducono in espressioni genuine, forgiate senza il ricorso ad abbellimenti o artifici produttivi; dall'altro le rapide pennellate dell’impressionismo pittorico, che si riflettono nel suo approccio alla composizione. Dardust esplora nuovi scenari urbani attraverso viaggi e registrazioni di suoni nelle periferie di diverse città e lo fa prendendo a modello la capacità degli impressionisti di dipingere scene di vita moderna all'aperto rappresentando la realtà in modo soggettivo ed enfatizzando la percezione personale e immediata piuttosto che la precisione dei dettagli.

Dario partiamo dalla nascita di Urban Impressionism e dalla necessità di dare un colore alle nostre periferie interiori.
È così, ogni volta che ripenso alla genesi dell’album penso a cosa è arrivato prima. È come un sogno, tutto arriva in maniera naturale. Ogni artista ha una matrice di base che poi colora e la mia è l’attitudine ad andare in luoghi periferici e oscuri, scoprirli, colorarli e portare, attraverso un processo catartico, una nuova luminosità. Ho vissuto una adolescenza e una infanzia al margine, sentendomi anche abbandonato, e reagivo aumentando la realtà e aggiungendo colori, immaginando melodie. Urban Impressionism è un ritorno al mio imprinting originario, alle fondamenta dei palazzi che sono stati le mie multidimensioni creative, ecco perché questo è un disco asciutto. I colori nascono dal pianoforte.

Era il 1874 a Parigi ci fu la prima mostra Impressionista e fu indipendente: al di là delle catalogazioni di genere, in cosa la tua musica è indipendente e in cosa resta incompiuta. Per questo mi ricollego al quadro di Claude Monet Impressione, levare del sole che un critico definì incompiuta e quindi un'impressione.
Era qualcosa che rispetto alla minuziosità dei dettagli e alla sacralità dell’arte precedente era di rottura, portava nell’arte i lavoratori e i luoghi di piacere come le ballerine di Degas. Erano opere rarefatte e poco dettagliate proprio come i palazzi brutalisti che sembrano incompiuti. In questo progetto ho tolto la forza di Duality e il lavoro scintillante del produttore perché qui è vulnerabilità. Sono schizzi rimasti tali ma dotati di forza e potenza, è la cosa più onesta e destrutturata che abbia mai fatto.

I video che accompagnano le tue composizioni fondono la geometria dei luoghi con la musica: immagini la sintesi come una sfera o come un triangolo, quindi con una sua armonica spigolosità?
Entrambe le cose, alcuni hanno geometri nette come Le Bolero Brutal, Italian Reverie è più morbida, Mon  Coeur Beton Brut è tonda e spigolosa nel contempo. Ci sono geometrie in divenire che si alternano e ritornano. Sono andato nelle periferie di Parigi incontrare le geometrie dei palazzi brutalisti.

Urban Impressionism, restando in tema pittorico, mi ha fatto pensare all’urlo di Munch che trova la parola e inizia ad argomentare la sua nemesi.
È una traccia in cui trovo più lo sbocciare di un nuovo percorso, ci sono la città e la creatività che si svegliano. È un brano sognante dove le strutture urbane si intrecciano, è la nascita di un nuovo me.

Alba mi ha portato nel mondo del Romanticismo letterario dove non è l’urbanizzazione ad accogliere bensì il paesaggio, la natura.
Ripenso alla mattina presto nelle periferie con l’arancione che colorava il grigio. In questo disco non c’è la natura. Noi veniamo dalle città, siamo figli di un'epoca fortemente urbanizzata e cerco di trovare un nuovo linguaggio che dalla marginalità ci porti al centro delle cose. Mi piace pensare al Pasolini di Ragazzi di Vita e al Welsh di Trainspotting perché hanno indagato la fascinazione delle periferie. Lì c’è un senso di fatiscenza, ci sono rovine da una parte ma dall’altra sono anche cose che possono divenire qualcosa d’altro. La bellezza si cerca dove apparentemente non c’è.

Vertige è il volo di Icaro? Solo che stavolta non si brucia le ali?
Potrebbe. È la vertigine creativa ma non so se si brucia, è di certo il brano più pindarico. Mi ha aiutato  Ze In The Clouds, non è un qualcosa di addomesticato e lui mi è stato di grande aiuto.

Urban Cage, andando oltre la gabbia del titolo, mi ha portato nella giungla dove si confrontano gli animali che vivono sugli alberi con quelli che stanno a terra. Il tutto trasmette armonia fisica.
Insieme a The Art of Falling sono i due pezzi più emozionali e densi di emozioni, lo vedo quando li suono live, c’è un forte impatto emotivo. Qui esco dalla gabbia dorata del produttore con i numeri per vedere la realtà in un’altra ottica.

Eccoci a Bolero Brutal, per me il brano più intenso del tuo progetto: l’origine è datata nella prima metà dell’800. Si dice che l’etimo sia volare. In cosa ti ha fatto volare, come prima di te ha fatto volare, tra gli altri, Ravel, Emerson Like & Palmer (Abaddon’s Bolero) e Jeff Beck (Beck’s Bolero) e in cosa lo hai visto brutale?
Musicalmente non ha nulla a che fare col Bolero, è una danza brutalista che nasce in auto osservando la prospettiva delle case mentre ero in movimento. È una danza periferica dove ho proiettato il senso del ritmo, mi piaceva accozzare concetti lontani. Sono tutte impressioni. Amo il dipinto I piallatori di Parquet di Gustave Caillebotte, trasmette impressioni di quotidianità senza l’aspetto concettuale e sacrale dell’arte precedente.

All’origine del tutto metti l’analisi delle strutture compositive di Brian Eno, Debussy e Steve Reich. Da ascoltatore interpreto il tuo lavoro come un De Chirico: sole e ombre, umano e metafisico. Ci sta?
Non ci ho pensato però ti dico che sole e ombre sono il bianco e il nero. E anche umano e metafisico perché siamo in un piano che è l’estensione dell’umano, è la mia una realtà aumentata.

Infine ti chiedo se è l’ansia di vivere che porta la mente a correre.
Assolutamente sì e devo dire che c’è un forte cambio rispetto ai dischi passati. Oggi, a metà del percorso della mia via, se Dio vuole, non provo più l’ansia che c’era prima e che mi ha portato a eccedere, a sovraprodurre e dimostrare sempre qualcosa in più. Qui c’è l’affermazione di quello che sono, è il mio disco più onesto e nudo.

Cosa puoi anticiparmi del tour?
Tornano gli archi, c’è ovviamente il pianoforte e poi la postazione elettronica. Sarà centrato su questo viaggio, ospiterà pochissimo passato. Vorrei ci fossero i visual poi solo luci bianche niente colori. All’estero invece andrò da solo mantenendo questa linea di pensiero. E poi per la prima volta parlerò, come fosse un recital.

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