Turbojazz: “Amo le sfide e conservo un approccio idealista alla musica”

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Fabrizio Basso

Fabrizio Basso

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Ospite della serata Finale del Viva Festival di Locorotondo, questo artista ha pubblicato il suo primo album “Whateverism” dopo vent'anni di musica. L'INTERVISTA 

Se volete viaggiare sintonizzatevi sulle frequenze di Turbojazz, all'anagrafe Tommaso Garofalo. Classe 1986, veronese di nascita ma milanese d'adozione, ha miscelato suoni, suggestioni e tendenze e dopo vent'anni di attività ha pubblicato il suo primo album Whateverism perché "ho trovato la mia identità". Ospite della serata conclusiva del Viva Festival a Locorotondo, mi ha raccontato la sua musica senza frontiere, figlia di una sfida quotidiana incessante.

Tommaso partiamo dalla tua partecipazione a Viva Festival: come hai scelto il set e come hai armonizzato il tuo percorso artistico con Whateverism?
La scaletta si appoggia sulla tracklist dell’album e venendo da un ambiente più djing ho creato uno storytelling immaginando di portarlo live. Anche con i BPM è un crescendo, si parte morbidi e si chiude in levare. Whateverism è una fotografia dei miei primi vent’anni, c’è tutta l’evoluzione musicale del mio profilo artistico e le varie collaborazioni nate nel tempo. Sul palco siamo in sei e ho scelto di lavorare prevalentemente con italiani come produzione per dimostrare che esiste una new wave italiana reale.
Il titolo forse non ha una traduzione in italiano, quella più vicina alla nostra lingua potrebbe essere qualunquismo: ci aggiungiamo il merito di avere dato una accezione positiva a un termine in italiano negativo?
È inteso come qualsiasi cosa ed è stato concepito durante la pandemia quando tutti eravamo meno frenetici e meno occupati. Era un momento incerto e dovevi pensare che sarebbe uscito tra un anno o due e io mi sono detto: basta pensare a come sarà percepito, deve solo rappresentare me stesso e quello che sono stato. Non ci ho pensato troppo e ho proceduto a sensazioni e senza compromessi.
Il tuo percorso artistico nasce nel 2002, hai appena fatto i 20 anni di storia… però l’attesa per l’album è stata lunga.
Per un deejay la cosa più difficile è, se parti da un percorso di collezionismo e ricerca, trovare qualcosa che sia identitario. Nei miei ascolti c’è sempre il filo conduttore di una matrice jazz, ora ho finalmente trovato il mio suono, ho trovato il mio stile.
Clubbing, cultura hip hop filtrata con soul e funky, il jazz ereditato da una passione paterna: ti senti un precursore delle contaminazioni?
Diciamo che mi sento un po’ off dalle cose che sono più comuni. Ho un bagaglio dietro che mi permette una visione più laterale della new wave e della dance. Proprio venendo al Viva Festival ho riascoltato Please U, brano che ho fatto con David Blank e con i miei collaboratori lo abbiamo sentito moderno e fresco dopo dieci anni. Ecco io mi muovo sempre con leggerezza.
Quanto il tuo passato da writer ha inciso sul tuo percorso musicale?
I colori nella musica sono un elemento che c’è sempre. Spesso un titolo lo associo a un colore. Il mio passato da writer mi ha avvicinato alla creatività e all’immaginario.
Ho ascoltato l’album e letto un po’ di recensioni: è stato spesso definito un album maturo, concordi?
Credo che chi lo ha detto abbia fatto un ragionamento non solo sull’album ma sul mio percorso, c’è chi mi ha seguito e supportato da sempre. Per il prossimo album non aspetteremo altri vent’anni, questo è punto di partenza verso il futuro: amo le sfide e l’asticella più alta non è per me ma per la musica. Amo creare nuovi correnti e non voglio buttare sul mercato cose senza senso, magari già sentite: ho un approccio idealista.
L’album nasce nel periodo del Covid e in un momento che ti ha visto in tour in Sudafrica: quanto i tempi lunghi concessi dalla pandemia ti hanno permesso di sperimentare e quanto quella parte del mondo ha influenzato le sonorità?
In Sudafrica ho studiato le nuove wave che partono da lì, è uno dei mercati più sani che ci sono nel mondo. Capisci che le tue sperimentazioni qualcuno le ascolterà. Devo ammettere che in Italia Whateverism è andato molto bene, oltre le aspettative.
Però all’estero la tua musica ha un gradimento più alto.
Spesso per entrare in Italia devi fare il giro da fuori. Ma quest’anno in Italia sto andando benissimo.
Tu consideri il djing una forma d’arte, come fosse un colloquio tra persone: è così?
Così imposto il mio modo di lavorare, non è scontato che ci sia un dialogo che è la base del jazz. Per attirare un pubblico mi sono aperto su certe sonorità.
Possiamo dire che il tuo Constellated ceiling è la visione moderna della soffitta a un passo dal cielo blu di Gino Paoli?
Citi una canzone che da bambino ritenevo all’avanguardia. Per risponderti… assolutamente sì. È un brano su più strati, ma l’idea del cosmo e dello spazio accomuna molti musicisti. Ha un afflato a livello spirituale, non ti chiude dentro una stanza e un corpo.
Che accadrà nelle prossime settimane?
Farò un blitz in Inghilterra vicino a Londra, nel Lincolnshire, al Lost Village Festival che si svolge in una foresta e ci attacco una data a Birmingham. A settembre sono a Cellamonte. Poi riparte la stagione più da djing: a settembre sono a Milano e Firenze per citarti un paio di date.

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