Abbiamo incontrato l’autore e cantautore Niccolò Agliardi, in occasione dell’uscita dell’antologia Resto. Due cd, 25 brani scelti dal suo repertorio e tre inediti: Di cosa siamo capaci, Johnny e Colpi forti. Il disco sarà presentato il 22 e 26 settembre, rispettivamente a Roma e Milano: un aperitivo tra amici con una buona dose di musica e tante tante chiacchere. LEGGI L'INTERVISTA
IL COMMENTO DI FABRIZIO BASSO
Un viaggio nel profondo dell'uomo. Della donna. Storie di amori che tornano e se ne vanno. Storie di attese. Sentimenti che si consumano in un aeroporto o che si ripresentano a un semaforo rosso. Niccolò Agliardi, con quale condividiamo almeno cinque lustri di amicizia, declina i colori della sua vita in un doppio album che si intitola Resto e si divide in Ora e Ancora e che è impreziosito da tre inediti. Il pregio è di essere un disco schietto e sincero. Un disco vero. Come è lui che nel tempo ha attraversato momenti difficili ma che li ha affrontati e superati poiché, come spiega, il futuro non va idealizzato ma costruito. E' un uomo che sa aspettare, compreso il meno e il meno male. Può piacere o non piacere Niccolò Agliardi, sulla soggettività non si può intervenire, ma quel che è certo è che con lui, ascoltandolo, condividendolo, ogni alba porterà all'ultimo giorno di inverno.
L'INTERVISTA DI MARTA NICOLAZZO
Concentrandoci sui tre inediti dell’antologia, il tema della “famiglia” è molto presente. Partendo da Johnny, cosa ci vuole raccontare?
Immaginandoci di poter essere figlio illegittimo - come spesso mi piace pensare - di Francesco De Gregori, Ivano Fossati e dei miei maestri, esistono soprattutto in De Gregori delle trilogie - come quella del Titanic - in cui vedi la nave e il viaggio da tre angolazioni differenti. Io oggi vedo la famiglia dei miei 44 anni da tre punti di vista diversi: il primo è quello di un giovane ragazzo di 18 anni che si chiama Johnny: è mio figlio affidato, si affaccia all’età adulta e guarda il mondo da una prospettiva di vista e di vita diversa rispetto a quella che potrei avere io, ma mi piace giocare con la terza persona singolare, mischiandomi ad essa, e provare a entrare nelle pieghe e nei pensieri di Johnny.
… E il brano Di cosa siamo capaci?
E' la fotografia di una famiglia allargata in stile americano. Mi riferisco a quelle famiglie che si vogliono bene, che si sono scelte per volontà e non per necessità, sono le famiglie che si proteggono con persone che si aspettano. Mi piace molto il concetto di attesa, credo che ognuno di noi ne abbia uno ed è bello ogni tanto fermarsi a fotografarlo.
Poi c’è la canzone Colpi forti, rivolta a suo padre.
Sì, è il confronto tra due padri che si incontrano. Arrivato a una certa età trovi, più che il coraggio, la voglia di dire la verità. Questa nuova paternità mi consente di essere franco e di pochi complimenti. Sono un uomo che, per una questione di economia di tempo, non ha voglia di giri di parole. Ho la fortuna di usare le canzoni per comunicare, ma a volte quasi mi vergogno a usare i brani per dire delle cose perché le canzoni sono violente, ti impongono tre minuti e mezzo di te stesso e danno poca possibilità di replica, ma d'altronde mi sono abituato. Colpi forti non è un attacco a un genitore, è semplicemente un “eccomi, sono genitore anche io, parliamoci ad armi pari”.
Il suo concetto di famiglia rimarca l’ideale dell’ostrica di Giovanni Verga o se ne distacca?
C’è un momento tra i trenta e i quarant’anni dove la sensazione dell’ancoraggio familiare è decisamente più labile. E' un periodo in cui hai la sensazione di essere onnipotente, ancor più che a vent’anni, dove pensi che te la puoi cavare a prescindere. In realtà, noi siamo esseri corali, che hanno bisogno degli altri per esistere e crescendo capisci perfettamente che gli altri non sono tantissimi, cinque o sei, quando sei fortunato. Ma quei pochi sono fondamentali e lì ritorna l’ideale dell’ostrica. Dopo i quarant’anni ti rendi conto che quell’applauso del pubblico pagante o non pagante – come lo definirebbe De Gregori – non va a sopperire a niente. L’unica cosa che sopperisce è l'abbraccio di qualcuno che ti aspetta. Comprendi più che mai che se prima volevi fare il cantante, suonare negli stadi, provare a riempire la tua vita e il tuo vuoto con l’approvazione esterna, la verità è che l’approvazione più importante sta nel tuo letto o sotto il tuo tetto, ed è l’unica che ti salva.
Ha scritto una canzone intitolata Da casa a casa: vede la casa come simbolo di unione familiare?
La casa è un bel concetto, ma sempre di più individuo la casa come qualcosa di simbolico che prescinde dall'entità fisica. Ho una percezione di casa molto lontana da casa mia, anche geograficamente parlando: mi sento a casa in Africa, accanto a persone a cui voglio molto bene o a Roma dove vivono persone che amo profondamente. Casa non è più la costruzione, casa è dove mi sento protetto. E dove c’è un letto comodo (sorride, ndr).
Una frase di Da casa a casa, scritta una decina d’anni fa, dice: “Le parole quando hanno fretta sono mignotte, vanno a schiantarsi senza ragione sulla dolcezza di chi non le usa”. Lei che vive di parole come le domina?
Le parole vanno dominate conoscendole, leggendo e incuriosendosi: capire perché gli altri usano delle parole che tu non useresti mai e perché tu ne usi alcune che spesso non vengono comprese. La presunzione che mi porto appresso vorrebbe che tutti avessero la possibilità di aver letto i libri che ho letto io, però poi ti accorgi che non è quello il modo viscerale per comunicare. Penso ancòra che le parole emotive quando hanno troppa fretta sono mignotte ma, oggi, nel dubbio taccio.
Questa odierna preferenza del silenzio è merito della sua maturità?
Sì, sicuramente. Soprattutto a casa, certe volte le parole possono essere di troppo. Avendo un figlio diciottenne silenzioso ho capito che sebbene io metta tutto l’amore possibile nelle mie parole, non sempre questo amore viene colto. Le parole pesano, è meglio toglierne qualcuna piuttosto che aggiungerne.
Com’è nata la collaborazione con Elisa in Più musica e meno testo nel 2011?
Pensavo a un brano molto “world music” perché la canzone è nata durante il volo Cuba – Italia. Avevo ancora in testa i suoni tropicali e mi serviva uno strumento vocale che richiamasse qualcosa di lontano. Simone Bertolotti – produttore di quella canzone - mi ha suggerito Elisa che, avendo una capacità vocale istrionica e cangiante, ha emesso un suono che raggiunge delle vette insospettabili, come un theremin.
Resto è un’antologia. I brani sono stati riarrangiati? Ce ne sono alcuni a cui è più affezionato?
Tutti i brani del disco Ora sono stati riarrangiati, alcuni del disco Ancòra restaurati. Resto è un’antologia dei 25 brani che in assoluto mi piacciono di più e che suonano meglio. Inizialmente dovevano essere 22, ma non potevo escludere quei tre! (sorride, ancora, ndr)
Fratello Pop è stato il primo singolo del suo primo disco (1009 giorni) suonato dalle radio. L’ha scritta a 26 anni. E’ una lettera aperta a un amico che viveva i suoi vent’anni in maniera diametralmente opposta alla sua. Sfacciato, leggero, sicuro e pop, lui. Riflessivo, riservato, malinconico, cantautore, lei. Il tempo ha smussato i vostri estremi?
Siamo rimasti amici nel tempo. Nelle vostre vite abbiamo avuto entrambi molta fortuna, lui è un bravissimo presentatore di successo, molto felice del suo lavoro. Era il mio fratello pop e con il tempo mi ha dimostrato che il suo pop ha vinto. E’ bello vedere com’era evasivamente pop e di come sia riuscito a farne il suo talento. Come dice la canzone: “…E sul durante fai il tuo talento”.
In Fratello Pop dice: "Attento alle domande a fare quelle giuste". Abbiamo superato la prova?
Direi proprio di sì (ride, ndr).