Fortuna, recensione del film in concorso alla Festa del cinema di Roma

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Marco Agustoni

L’originale lungometraggio d’esordio di Nicolangelo Gelormini, con Valeria Golino, Pina Turco e la giovane Cristina Magnotti, prende spunto da un fatto di cronaca, ma trascende per mettere in scena l’indicibile

Lungometraggio d’esordio di Nicolangelo Gelormini, Fortuna è stato presentato in anteprima alla Festa del Cinema di Roma (LO SPECIALE), all’interno della selezione ufficiale. Nel cast, la pellicola può contare sull’esperienza di Valeria Golino (FOTO), sul talento della sempre più convincente Pina Turco e sulla freschezza della sua protagonista, la giovane Cristina Magnotti (già apparsa nella serie tv L’amica geniale come Marisa Sarratore da bambina), alle prese con un ruolo tutt’altro che semplice.


Fortuna
racconta di Nancy, bambina che vive in una palazzina di periferia il cui recente mutismo ha messo in allarme i genitori. La madre la accompagna regolarmente da una psicologa della Asl, il cui disinteresse non è però di alcun giovamento per la piccola. I soli in grado di entrare in contatto con lei, gli unici peraltro a chiamarla con quello che lei ritiene il suo vero nome, ovvero Fortuna, sono i suoi amici e vicini di casa Anna e Nicola, che la coinvolgono in una fantasia fatta di pianeti lontani e giganti senza faccia.

Gelormini sceglie di ispirarsi a un fatto di cronaca, l'omicidio di Fortuna Loffredo, ma utilizza la vicenda per mettere in piedi un film ai limiti del surreale, in cui il legame con quanto accaduto si concretizza in tutto il suo dramma solo nella seconda metà della pellicola. Proprio questo approccio trasversale, in cui l’orrore del quotidiano è solamente accennato, oppure trasfigurato in immagini enigmatiche e conturbanti, consente al cineasta di far percepire il “vero” orrore di una psiche confusa e lacerata nel profondo.


Per la bambina protagonista, comprendiamo presto, la faccenda del nome non è un semplice vezzo: è piuttosto una vera e propria questione di sopravvivenza, una fuga da sé come unica via di salvezza di fronte all’indicibile. L’elasticità dell’identità e l’impossibilità di raccontare l’orrore, non per niente, sembrano essere due dei temi centrali del film.

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Fortuna si svolge in una periferia all’apparenza fuori dal tempo, le cui architetture sembrano ideate appositamente per suscitare alienazione e soffocare sul nascere ogni speranza di una vita alternativa. Gli androni, le scale, i palazzi, veri e propri non luoghi mostrati dalla macchina da presa in tutta la loro intima desolazione, diventano così parte attiva nella vicenda, quasi avessero ricevuto l’incarico da un’entità maligna di succhiare le energie vitali a chi li abita e li attraversa.


Gelormini dimostra una notevole maestria nella composizione dell’immagine e nella costruzione delle geometrie interne all’inquadratura. Ma non si tratta di mero esercizio di stile, perché in Fortuna la messa in scena è quasi sempre funzionale all’incarnazione di una suggestione o di uno stato interiore. In questa stessa direzione si muove la colonna sonora, il cui minimalismo a base di droni e deflagrazioni improvvise concorre a sottolineare i turbamenti della giovane protagonista.


Il risultato non sarà magari alla portata di tutti - siamo dalle parti del cinema del conturbante e non come detto dello scevro racconto di fatti di cronaca -, ma l’originalità dello sguardo di Nicolangelo Gelormini rende Fortuna un oggetto raro nel panorama cinematografico nostrano.

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