Jennifer Lawrence, da Burning Plain a Die My Love: la metamorfosi di un talento

Da oltre quindici anni Jennifer Lawrence attraversa il cinema americano come una forza primordiale: istintiva, imprevedibile, bruciante. Dai suoi esordi a Venezia con The Burning Plain alla vertigine materna di "Die My Love", ogni personaggio è un frammento di un’unica combustione. C’è un momento, guardandola, in cui sembra di sentire il legno che scoppietta dentro un camino. Non recita: brucia. È sempre stato così, fin da quando — giovanissima — arrivò sul grande schermo con "The Burning Plain" , il film che la fece notare alla Mostra del Cinema di Venezia, regalandole il Premio Marcello Mastroianni come miglior giovane interprete. Lì, tra Charlize Theron e Kim Basinger, Jennifer Lawrence era una figlia ferita, incastrata in legami familiari che lacerano. Una ragazza che guardava il mondo come si guarda un precipizio. Quella intensità, così precoce, non sarebbe più sparita. Avrebbe cambiato forma, colore, temperatura — ma non sarebbe mai evaporata. Dalle origini al primo riconoscimento: "The Burning Plain" e "The Poker House" Prima del successo planetario, c’era una giovane attrice attratta dalle zone d’ombra. In "The Poker House" , diretto da Lori Petty, Lawrence interpretava Agnes, la sorella maggiore che tenta di proteggere un piccolo nucleo familiare sbriciolato da dipendenze, violenze e abbandono. Un ruolo già carico di intensità, premiato anche al Los Angeles Film Festival. Nelle interviste del tempo, Lawrence parlava di quel copione come di qualcosa di “brillante, vero, con i denti”: la definizione perfetta della poetica che avrebbe segnato tutta la sua carriera. Lei non ha mai avuto paura della bruttezza dell’animo umano, dei silenzi, delle crepe. Le interessa la vita quando fa male. Con "The Burning Plain", queste crepe diventano uno stile: uno sguardo che sa essere vulnerabile e feroce, dolce e minaccioso. Un volto che trattiene tutto e lo lascia esplodere un attimo dopo. La consacrazione autoriale: "Un gelido inverno" e "l’America spezzata" Il 2010 è l’anno decisivo. "Winter’s Bone" non è solo il film che la porta alla sua prima candidatura all’Oscar a 20 anni: è il film che definisce la sua identità artistica. Ree Dolly è un personaggio che sembra uscito da un romanzo di Cormac McCarthy: una ragazza che attraversa le regioni più povere, dure e crude dell’America rurale per salvare la propria famiglia. Una sopravvissuta che non ha tempo per la paura. David Denby, sul New Yorker, scrisse che il film sarebbe stato "inimmaginabile con qualcun’altra". Jennifer Lawrence non interpretava Ree: era Ree. Con questo ruolo, il fuoco del suo talento diventa evidente a tutti: Hollywood, critica, pubblico. La nascita della star globale Il successo planetario arriva come un’onda che non chiede permesso. Tra il 2011 e il 2015 Jennifer Lawrence attraversa Hollywood con la forza di una cometa che illumina tutto ciò che sfiora. "Hunger Games" non è soltanto un franchise: è il rito collettivo di una generazione in cerca di una voce. E quella voce, improvvisamente, ha il timbro di Jennifer. In Katniss Everdeen porta una rabbia giovane, una dignità ferita, un coraggio che sembra nato molto prima del personaggio. Non interpreta un’eroina: la reinventa. Le dà la gravità del silenzio e la violenza della necessità. Katniss non si offre mai al mondo — resiste. E in quello sguardo che sfida il sistema, Hollywood vede il futuro. Poi c’è Mystica, mutante e cangiante, corpo politico tra identità e metamorfosi. Un personaggio che sembra scritto sulla sua pelle: Jennifer lo attraversa come se la trasformazione fosse il suo stato naturale, come se cambiare colore, forma, desiderio fosse l’unica maniera possibile per restare vera. Sono anni in cui la sua immagine abita i poster, i red carpet, i meme, i discorsi delle ragazze adolescenti, i trend culturali. Ma la grandezza non sta nella fama — sta nel paradosso: più il mondo la vuole icona, più lei resta umana. La stagione d’oro: Jennifer Lawrence detta il ritmo Dopo "Winter’s Bone", la sua carriera accelera come se Hollywood avesse improvvisamente riconosciuto in lei un’urgenza impossibile da addomesticare. È il periodo in cui incontra David O. Russell e in cui il suo talento smette di essere una promessa per diventare una forza che trascina, spinge, scompiglia. Con "Il lato positivo" , Tiffany Maxwell irrompe sullo schermo con la fragilità di una ragazza che ha perso tutto e la ferocia di una donna che non chiede scusa. A soli ventidue anni vince l’Oscar e sposta l’asse di Hollywood: da quel momento, non è più il cinema a scegliere lei, è lei a imporre la propria frequenza. Poi arriva "American Hustle" : Rosalyn è una mina vagante che accende ogni scena come una scintilla impazzita. Tragica e irresistibile, sovverte tutte le regole. Con "Joy" , Lawrence diventa la donna che inventa sé stessa e il proprio futuro. A venticinque anni conquista la sua quarta candidatura all’Oscar. Non un record: un avviso ai naviganti. In quegli anni, Jennifer Lawrence non interpreta ruoli: impone un modo di stare al mondo. Jennifer Lawrence fugge dalla comfort zone Finita la stagione in cui Hollywood la voleva ovunque, Lawrence fa ciò che pochissime star osano davvero: si sposta di lato. Cerca il rischio invece della conferma, sceglie la strada non asfaltata delle metamorfosi. In "Red Sparrow" , è una lama: controllata, glaciale, ma attraversata da una fragilità che brucia come un difetto di fusione. In "Mother!" , abbandona il concetto stesso di personaggio e diventa simbolo, archetipo, corpo offerto. Non recita: si sacrifica. In "Passengers" , trova sincerità in una storia sbilanciata, portando verità dove rischiava di esserci solo artificio. Jennifer Lawrence non si accontenta mai dei ruoli “giusti”: cerca quelli che mettono a disagio. È lì che diventa grande. Nel 2022 torna al realismo puro con "Causeway": una soldatessa ferita nel corpo e nella mente. Una prova spogliata, sincera, vulnerabile. Un ritorno all’origine. "Die My Love": la caduta, la madre, l’abisso "Die My Love" , diretto da Lynne Ramsay, è il film in cui tutto converge. Lawrence è Grace, una donna che tenta di scrivere mentre la maternità la trascina in una depressione post partum che diventa lingua, visione, labirinto. Il film — girato su pellicola Kodak Ektachrome — è un mondo sensoriale fatto di luce lattiginosa, grana spessa, silenzi che feriscono. Lawrence ha raccontato la difficoltà di interpretare un personaggio così vicino alla propria esperienza di depressione post partum: una sovrapposizione di vita e arte che rende il ruolo quasi insostenibile per sincerità. Jennifer è una Grace intrepida, e abbraccia anima e corpo un ruolo controverso, fragile, crudele, umano, troppo umano. È un film che pone domande più che offrire risposte, inquieto e non rassicurante, mentre sui titoli di coda riecheggia una versione struggente di "Love Will Tear Us Apart" dei Joy Division. Perché a Jennifer Lawrence non è mai piaciuto vincere facile. E a Cannes 2025, "Die My Love" è stato uno dei film più discussi e ammirati. La vendita a MUBI per 24 milioni di dollari è un segnale preciso: un’opera radicale che parla al mondo. Una traiettoria che brucia Da "The Burning Plain" a "Die My Love", Jennifer Lawrence segue una legge non scritta: ogni ruolo deve superare il precedente in vulnerabilità. È passata attraverso: figlie spezzate eroine in rivolta mogli instabili spie letali inventrici testarde donne devastate dalla maternità Non cerca la perfezione. Cerca la verità. C’è una qualità rara nelle attrici che sopravvivono al proprio mito: la capacità di reinventare il fuoco. In Die My Love, questo fuoco diventa blu — il colore della combustione nelle sue fasi più intime. È il colore della notte, del respiro corto, del pensiero che lacera. È anche il colore della rinascita. Perché alcune attrici recitano, altre brillano. Jennifer Lawrence, invece, brucia. Sempre. Ancora. Di nuovo. E ogni volta, illumina.

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Paolo Nizza