Michele Riondino: “L’arte è azione politica”

Con “La valle dei sorrisi” di Paolo Strippoli, Michele Riondino ha esordito nel genere horror. Ma anche questo film, come tutti quelli in cui ha recitato o che ha diretto, appartiene a un sottile filo rosso che parla di umanità e sociale. Perché se c’è una cosa che l’attore e regista nato e cresciuto a Taranto tra i fumi dell’acciaieria non perde mai di vista è proprio l’aspetto più politico dell’arte. Ospite di Stories, il ciclo di interviste di Sky TG24, si è raccontato così. Sei protagonista di “La valle dei sorrisi” di Paolo Strippoli, un giovane regista che nel genere horror si è ritagliato uno spazio molto importante in Italia. Dicci tu qual è la trama, facci il trailer. Il professor Rossetti, che è il personaggio che interpreto, ha subito un grave lutto. La vita lo ha messo di fronte a un grande dramma che ormai lo condiziona continuamente. Non riesce più a vivere la sua vita in maniera rilassata, felice, e quindi si abbandona agli eccessi, all'alcol, cerca aiuto negli psicofarmaci. Insomma, decide a un certo punto di abbandonare il territorio, la città, il suo passato per trovare la salvezza. Finisce a Remis, un paese abbracciato dalle montagne dove sono tutti felici, ridono, scherzano, esattamente il suo opposto; diventa la mosca bianca e soffre, continua a soffrire finché questa locandiera, Michela, decide di aiutarlo a diventare esattamente come tutti gli abitanti di Remis, a trasformarsi in un uomo soddisfatto, felice. Ma per fare questo ci sarà bisogno di sottoporsi a una cerimonia, a qualcosa che va oltre il credito o oltre l'ordinario. Che ci fa Michele Riondino in un horror? Da spettatore ho molto amato i lavori precedenti di Paolo Strippoli, la sua capacità di utilizzare il linguaggio, la narrazione, i tempi, i meccanismi del cinema horror per affrontare temi che sono invece molto concreti. Ecco, questo mi ha affascinato già da “Piove”, il suo film precedente, e ho ritrovato lo stesso percorso in “La valle dei sorrisi”. Il personaggio che interpreto è una sorta di Virgilio per lo spettatore: questo non è un film horror dove chi guarda non farebbe mai le scelte del protagonista, qui il mio personaggio potrebbe essere uno del pubblico e quindi si sorprende di quello che avviene, dell'evento magico. Le tematiche del film sono tante, provo a metterne due sul tavolo: una molto forte è il rifiuto del dolore, che in verità è un atteggiamento molto umano anche se il dolore serve. Sì. Diciamo che, anche se si tratta di generi diversi, è un po' l'esatto opposto di “Inside Out”, un racconto che ti spiega di come è necessario restare dentro l'emozione. La sofferenza e il dolore fanno parte della vita. Questo è un film su come è molto semplice accettare l'idea di prendere la scorciatoia, ed è secondo me anche un film che ha all'interno una grandissima metafora. Remis, questo paesino dove sono tutti contenti, non è molto diverso dal mondo social, per esempio, dove siamo tutti performativi, dobbiamo essere instagrammabili, dobbiamo mostrarci per quello che in realtà non siamo. Paradossalmente è anche un film sull'amore che cura e sul significato della paternità. Sì, il tema della paternità è centrale. Perché per un padre che non è riuscito a restituire al figlio un rapporto sano attraverso l’affettività, ce n'è un altro che invece, per adeguarsi a un cliché, rinuncia alla propria di paternità. C'è anche il tema del disagio giovanile, del sentirsi diversi dagli altri, che è molto forte in uno dei personaggi, un tuo alunno. Sì, il protagonista del film, interpretato da Giulio Feltri, è un ragazzo che ha difficoltà di inserimento all'interno della scuola, ma in realtà è emarginato perché è l'artefice del benessere della comunità che non fa altro che difenderlo e, per poterlo difendere, naturalmente gli chiede qualcosa in cambio, gli sottrae l'anima. Parliamo della tua prima comunità, casa Riondino, quella da bambino. Dove siamo, chi c'era, com'era fatta? Casa Riondino è a Taranto in una di quelle case costruite per gli operai dell'acciaieria della Italsider, poi diventata Ilva. È una casa molto modesta, umile, molto bella. Con una tavola con il papà operaio, la mamma casalinga e tre fratelli che crescono in questo ambiente molto particolare e molto bello. Ho ricordi bellissimi della mia infanzia. Che bambino eri? Ero un bambino libero. Libero di essere, libero di agire, libero di correre in cortile tra i palazzi, libero dalla paura di imbattermi in qualcosa di pericoloso. Ce n'erano, eh, stiamo parlando degli anni ’80: il mio quartiere in quegli anni era molto, molto particolare. Eravamo abituati anche a doverci confrontare con delle dinamiche che non hanno proprio a che fare con la legalità, per restare un po' vaghi. Però avevamo la possibilità di giocare e restavamo a casa giusto il tempo dei compiti, quando li facevo, e poi si andava in giro. “Il passato è una terra straniera” di Daniele Vicari, tratto dal romanzo di Gianrico Carofiglio, non è il tuo primissimo film però è quello che forse ti ha lanciato. Sì, non è il mio primissimo film ma è il film che ha cambiato la mia vita. Ho avuto la fortuna di incontrare Daniele Vicari che mi ha dato questa possibilità in un periodo in cui ero molto pessimista e demotivato. Facevo moltissimo teatro in quel periodo, mi piaceva farlo e ormai non pensavo più al cinema. Dopo aver perso tante occasioni, ormai avevo quasi abbandonato l'idea di riuscirci. Daniele mi venne a vedere a teatro e mi fece fare questo provino lunghissimo, che durò giorni, perché poi la produzione voleva delle certezze. Insomma, puntare su uno sconosciuto non è mai semplice. E invece lui mi ha fortemente voluto in questo film. Quanti provini avevi fatto prima? Ne avevo fatti tantissimi, ho ricevuto tantissimi no. Cosa ti dicevi quando non andava? Mi dicevo che sarebbe andata bene la volta successiva. Però poi capitava sempre più spesso di dovermi confrontare con casting non sempre così gentili. Ecco, ai miei inizi era difficile riuscire a convincere il sistema cinema che chi faceva teatro poteva anche essere più leggero. È vero che tu la passione l'hai sempre avuta, sin da bambino, che ti allenavi facendo Indiana Jones? Si, vedevo i film di Indiana Jones, Rambo, ma anche “Pompieri” con Massimo Boldi. E sì, mi divertivo a ripetere le scene, da solo in casa o con qualche amico giù in cortile. Che studente eri? Pessimo. Credo che uno dei problemi del sistema scolastico italiano forse sia che ti viene chiesto troppo presto di prendere una decisione, a meno che tu non scelga di fare il liceo. E io non ho deciso di fare il liceo e sono stato costretto a scegliere un indirizzo che poi non mi apparteneva per niente: il tecnico industriale, ho studiato chimica industriale. Essendo di Taranto, la nostra peculiarità è quella di imparare subito come si fa l'acciaio e quindi sapevo che quello poteva essere il mio destino. E poi mi piacevano le provette. Ma percorso netto comunque? Ho fatto tutto il percorso, ho finito e non sono mai stato bocciato, fortunatamente. Il mio obiettivo era quello di finire subito le scuole per poter andare subito a Roma e fare l'Accademia. “Acciaio” è anche il film di Stefano Mordini in cui hai recitato. È un caso che tu sia arrivato a questo film o invece il fatto di avere l’acciaio nella tua storia ti ha portato a intraprendere questo progetto? No, diciamo che il mio percorso era già abbastanza segnato quando ho avuto la possibilità di incontrare Stefano. Io non so perché lui abbia scelto me, so però che questo film per me è stato importante perché per la prima volta ho avuto la possibilità di mettere la tuta da operaio. I turni di mio padre si alternavano con i miei orari scolastici o impegni extrascolastici e per questo film ho avuto la possibilità di entrare in acciaieria e vederne effettivamente le dinamiche, cosa che per esempio a Taranto non è mai stato possibile perché l'acciaieria è un luogo dove non ti è permesso entrare, non si sa quello che succede dentro se non per i racconti di chi la fabbrica la vive, mentre a Piombino ho avuto la possibilità di vedere e visitare la cokeria, l'acciaieria, l'altoforno, che poi sono tutti impianti che mi sono ritrovato nel mio “Palazzina Laf”, anche se spenti perché l'impianto di Piombino ormai lo stanno abbattendo. Per tanti a Taranto il destino era un po’ segnato. Se non fossi andato a Roma, forse, lo sarebbe stato anche per te? Ma io non credo, perché il mio desiderio era quello di fuggire da Taranto il prima possibile, proprio per non finire lì dentro. Però il mio attivismo è cominciato durante l’adolescenza, a 15 anni ero già lì a manifestare con i miei coetanei. Facevo parte dell'area antagonista, criticavamo non solo l'acciaieria ma anche la Marina militare, anche tutti quegli impianti che costringono Taranto a non essere una città libera. Però a casa mia, ogni volta che si parlava di problemi legati all'acciaieria, mio padre da operaio mi diceva di non mettermi mai contro quel luogo che molto probabilmente avrebbe potuto rappresentare il mio futuro. Hai parlato di attivismo, al tuo lavoro hai dato un senso di impegno civile. L'arte parla da sola o è necessario ogni tanto metterci la faccia? L'opera artistica è l'interpretazione che l'artista fa di quello che vede nella realtà, quindi inevitabilmente l'attitudine artistica con cui un uomo legge le questioni del mondo per tradurle in qualche altro linguaggio è già un'azione politica. La mia peculiarità artistica e sicuramente quella di farmi delle domande rispetto a ciò che vivo ogni giorno. Ma questo attivismo ha in qualche modo condizionato anche negativamente il tuo lavoro? Probabilmente sì, e probabilmente non lo saprò mai. Io sono un attore, non faccio l'attore, quindi mi piace non giudicare le persone, gli uomini e le questioni del mondo, ma mi piace farmi delle domande. E instillare il dubbio, far sì che la gente si faccia delle domande, è secondo me la funzione che l’attore ha sempre avuto. Sei stato “Il Giovane Montalbano”. Ti ricordi il momento in cui te l'hanno proposto? Ero a Roma, nella casa che all’epoca condividevo con un mio amico, collega, fratello, e ricevetti la telefonata del mio agente che mi disse: “Guarda, ti stanno proponendo – neanche il provino - il ruolo di Montalbano”. Io lì per lì pensai che mi stessero proponendo un personaggio all’interno della serie di Luca Zingaretti, quindi chiesi che personaggio avrei dovuto interpretare e lui mi disse: “No, no, vogliono che tu faccia proprio Montalbano”. Mi sono messo a ridere, non ci ho creduto, ho subito rifiutato, non pensavo potesse essere un'offerta vantaggiosa. Montalbano è un'istituzione, Luca Zingaretti è salvo Montalbano. Perché avrei dovuto rischiare così tanto? Però Carlo Degli Esposti, il produttore, ha insistito così tanto che a un certo punto mi son sentito di poter fare delle richieste. Ho detto: “Ok, va bene, vediamo un po' se ho la possibilità di parlare con Andrea Camilleri e se mi convince, mi dice che è una sua scelta e che non è solo una strategia commerciale per allungare la vita del prodotto televisivo. E se mi date la possibilità di lavorare sulla lingua, allora parliamone”. Camilleri mi invitò a casa sua, parlammo del personaggio un pomeriggio intero e capii in quel frangente che l'idea di poter raccontare il personaggio nella gioventù era un'idea anche narrativa che lo stimolava molto, che ci sarebbe stata la sua supervisione sulle storie, sulle sceneggiature che comunque erano tratte dai primi racconti Salvo Montalbano, e accettai. Da “Il giovane Montalbano” a “Il giovane favoloso” di Mario Martone. Con Elio Germano avevi già lavorato in passato e avresti lavorato anche dopo. Cos'è che vi unisce? Tante cose. Un'idea della vita, un'utopia. Poi le esperienze con Elio vanno anche oltre il cinema. Qual è la tua paura più grande? Il dolore dei miei cari è quello che mi terrorizza più di tutto e condiziona la mia vita. Vengo da Taranto, sono ormai purtroppo abituato ad allarmarmi. Siamo tutti molto preoccupati, siamo tutti scioccati e ormai anche destabilizzati come popolazione. Per noi tarantini un colpo di tosse, un mal di testa, un dolore al braccio possono essere un allarme molto grave e quindi Io credo di essere ormai condizionato da questa cosa. Ricordi il primo amore non ricambiato? Lo ricordo molto bene, ero un bambino di 11 o 12 anni. Eravamo in villeggiatura vicino a Taranto, un posto con un mare bellissimo, sento ancora gli odori, sento ancora i sapori di quell'estate, e mi innamorai perdutamente di una mia coetanea che era di Roma ed era lì in vacanza. Come si chiamava? Rosa. Mi ricordo che ero innamorato perso, giocavamo a nascondino e cercavo sempre di nascondermi dove si nascondeva lei. La grande delusione fu quella di vederla insieme al mio migliore amico della stagione. Aveva scelto lui. Puoi tornare indietro nel tempo e cancellare un errore passato. Quale cancelleresti? Forse qualcosa che sta nel mio percorso di studi. Ho finito l'Accademia e ho avuto la fortuna di cominciare a lavorare da subito, però avrei tanto desiderato andare a studiare all'estero, imparare la lingua, provare a fare il mio mestiere anche fuori. Credo che se tornassi indietro accetterei più il rischio di partire per vedere un po' come sarebbe cambiata la mia vita oggi. Invece, se potessi rivivere un intenso momento di felicità, quale sceglieresti? Il mio viaggio in Messico, dopo aver finito l'Accademia. A venti, ventun anni ho deciso di fare un biglietto con Davide, uno del mio gruppo di amici. Siamo partiti per un mese, arrivo a Città del Guatemala e rientro in Italia da Città del Messico. In mezzo dovevamo trovare il modo di goderci il viaggio e di arrivarci, a Città del Messico, totalmente inesperti di tutto. C'era l'euro da pochissimo, non c'erano cellulari, non c'era Internet, non c'era nulla. Siamo arrivati a Città del Guatemala, in un posto pericolosissimo dove la gente girava armata. Eravamo terrorizzati e in quel mese siamo cresciuti, siamo diventati uomini, viaggiatori. Ci siamo conosciuti, io con Davide, ma anche io con me stesso. È stato un viaggio incredibile. Ricordo di aver vissuto una sensazione ben precisa sul lago di Atitlán, tra il Guatemala e il Chiapas: il benessere assoluto. Ecco, se potessi recuperare quella sensazione la prolungherei. “Palazzina Laf” è il tuo esordio alla regia, un film di cui si è detto tantissimo, ha vinto tantissimi premi e ricevuto una grande accoglienza nella critica. Una delle cose che però mi hanno colpito è la fotografia della trasformazione sociale: un tempo c'era la lotta di classe, il lavoratore contro il padrone, qua si fotografa forse di più la lotta tra poveri, lavoratore contro lavoratore. Sì. La lotta di classe prevedeva appunto questa contrapposizione: lavoratori, manovali, operai contro l'idea borghese dell'impiegato. Nell'esperienza della Palazzina Laf nel ‘95, ‘96, ‘97, gli anni del passaggio dell’acciaieria dal pubblico al privato, questa scala sociale si è pareggiata e l'impiegato è diventato esattamente come l'operaio, povero, e questo è un film che vuole raccontare esattamente questo passaggio qui. Hai voglia di ritornarci alla regia? Sì, ho voglia. E per questo film devo ringraziare Carlo Degli Esposti, Rai Cinema, chi ci ha creduto e mi ha dato la possibilità di dedicarmi a un tema che non è affascinante, non è appetibile. Ho avuto la fortuna di essere libero di poter lavorare con una compagnia di attori che mi sono scelto e che ha amato il progetto e accettato di piegarsi perché sentiva questo film necessario. Che cosa pensi che gli altri dicano di te? Penso che chi è in buona fede ed è lucido nell'analisi pensi di me che sono una persona onesta. Temo che il mondo non sia fatto solo di persone oneste. Hai recitato in “I leoni di Sicilia”, serie tv diretta da Paolo Genovese che racconta la storia dei Florio. Ti riporta in Sicilia, anche se in una veste completamente diversa. Questo progetto è stato un vero e proprio regalo per me perché Paolo è stato disposto ad aspettarmi mentre avevo appena finito di girare “Palazzina Laf” e lo stavo montando. E poi perché io amo la Sicilia, la sento come una mia seconda casa, mi sento adottato dai siciliani e questo personaggio mi ha dato la possibilità di restituire in parte quell'amore che sento ogni volta che torno in Sicilia. È vero che sei uno che si distrae facilmente? Purtroppo sì, abbastanza, e faccio parecchie gaffe proprio perché mi distraggo, dimentico soprattutto nelle cose piccole, le cose della vita. Ho la memoria di un pesce rosso nella vita e invece nel lavoro riesco a memorizzare qualsiasi cosa in un istante, cosa che irrita molto mia moglie. Hai scaramanzie? Sì, purtroppo. Mi viene molto da ridere perché sono reduce da un viaggio in Scozia, e in Scozia è pieno di pecore e io sono schiavo del saluto alla pecora. Questa è una cosa molto “terrona”, molto nostra. Perché salutare le pecore vuol dire portare guadagno? No, no, no, solo salutarle. E in Scozia era pieno di pecore, quindi mi sentivo in dovere di salutare tutte le pecore, ma era un esercizio che costava molta, molta fatica. Tornando a “La valle dei sorrisi”, c'è naturalmente un tema che è quello della fede, poi bisogna capire in che cosa. Tu credi in Dio? No, mi ritengo agnostico, nel senso che non posso escludere l'esistenza di Dio ma non posso neanche confermarla e quindi in questa incertezza mi piace pensare che l'idea del divino, del sacro, risieda nella vita di ognuno di noi e quindi credo che il rispetto per la vita, per l'ambiente, per il mondo che ci ospita sia un pezzo di Dio che abbiamo in ognuno di noi. Si dice che siamo stati creati a sua immagine e somiglianza, ecco, io credo che quella parte di Dio la portiamo in noi e sta a noi usarla proprio nel rispetto del prossimo, di quello che viviamo. Per chiudere, ti chiedo di finire questa frase: “vorrei essere più…”? Non lo so. Vorrei essere, vorrei essere più... meno preoccupato. Ma è difficile questa domanda…

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Omar Schillaci