Robert Redford, il mito che ha cambiato Hollywood: perché il suo cinema ci parla ancora

Robert Redford non è più tra noi. È morto nel sonno il 16 settembre 2025, a 89 anni, nella sua casa a Provo, nello Utah: una fine dolce, quasi da romanzo, per un uomo che ha sempre cercato nella natura e nella misura la sua dimensione più vera. Ma la sua scomparsa non chiude una storia: la apre. Perché il senso di Redford non è mai stato solo nel mito del volto, ma nel modo in cui quel volto ha interrogato il cinema e la società. L’attore: il principe biondo che nascondeva un’ombra Redford nasce come attore “da copertina”: sorriso smagliante, fotogenia naturale, un’eleganza quasi irritante. Ma dietro quell’apparenza, c’era un uomo che conosceva la frattura. Forse per via della morte prematura della madre, forse per quella adolescenza ribelle che l’aveva portato a viaggiare senza bussola, Redford portava sempre un'ombra sottile dentro il sole californiano. Sydney Pollack lo definì "una metafora dell’America: principe biondo all’apparenza, interiorità cupa". Ecco la chiave: Redford attore non è mai solo bellezza, è inquetudine, sorriso che cela il dubbio. Otto ruoli che hanno cambiato il nostro sguardo Butch Cassidy and the Sundance Kid : leggenda e crepuscolo insieme, ironia e malinconia. La stangata : la truffa come balletto morale, l’inganno come arte. Come eravamo : la fragilità romantica accanto a Barbra Streisand. Il grande Gatsby : l’illusione americana nei suoi occhi azzurri. I tre giorni del Condor : la paranoia politica dopo il Vietnam. Tutti gli uomini del presidente : il giornalismo come arma civile, l’attore come corpo della verità. Il migliore : nostalgia e redenzione sul diamante del baseball. All Is Lost : il corpo solo contro l’oceano, senza parole, puro cinema. Il mio primo incontro con Redford: Jeremiah Johnson sotto le stelle Il cinema non si vede sempre allo stesso modo: a volte è un lampo, altre un imprinting che ti rimane addosso. Il mio primo Redford fu Jeremiah Johnson in Corvo rosso non avrai il mio scalpo! di Sydney Pollack. Era un’estate di tanti anni fa, in un cinema all’aperto di San Giuliano a Mare: lo schermo montato sotto le stelle, le sedie che scricchiolavano, l’odore salmastro del mare che arrivava fino ai dialoghi. Vidi Redford comparire in scena come trapper silenzioso, uomo in lotta contro la natura e contro se stesso. Rimasi colpito dalla sua figura: non un cowboy sprezzante, ma un sopravvissuto fragile, che imparava a convivere con i silenzi, con la neve, con i volti dei nativi americani. Era il mito americano che si spezzava e si ricomponeva, non più contro “i selvaggi”, ma accanto a loro, nel rispetto e nel conflitto. Quella sera capii che Redford non era solo un attore bello e magnetico: era un corpo che conteneva storia, ferita e coscienza. Jeremiah Johnson rimase con me come primo battito critico: il film era un western diverso, già allora capace di spostare il genere dalla retorica dell’eroe alla consapevolezza dell’altro. Il metodo attoriale di Redford: sottrazione, ritmo, empatia La sua forza stava nella sottrazione: non spiegava mai troppo, lasciava ai silenzi il peso. Il suo segreto era il ritmo interno: battute scandite con tempi musicali. Il suo dono era l’empatia ironica: anche quando mentiva sullo schermo, non tradiva lo spettatore. Il regista: la coscienza sotto la superficie Dietro la macchina da presa Redford dimostra di essere classico e radicale insieme. Con Gente comune vince l’Oscar alla regia raccontando il dolore di una famiglia borghese incapace di comunicare: un film ordinato, quasi minimalista, ma che colpisce con precisione chirurgica. Segue In mezzo scorre il fiume , dove la natura è teologia e i legami familiari sono parabole esistenziali. Poi Quiz Show , un film che anticipa i tempi: mostra come la menzogna e la manipolazione televisiva possano corrodere la società con un volto rassicurante. Redford presidente in Watchmen Persino la cultura pop ha assorbito la sua immagine fino a trasformarla in mito politico. Nella serie HBO Watchmen, ambientata in un universo alternativo e sequel ideale del capolavoro a fumetti firmato da Alan Moore e Dave Gibbons, Robert Redford interpreta se stesso come presidente degli Stati Uniti. Non appare fisicamente, ma la sua figura domina la narrazione: un leader progressista e liberale al potere da 27 anni, tanto da dover lasciare la carriera d’attore e persino il Sundance. Damon Lindelof, creatore della serie, spiegò che l’intento era mostrare cosa accadrebbe se anche un presidente dalle buone intenzioni restasse troppo a lungo in carica. È il segno che Redford non è solo un attore o regista: è un simbolo narrativo, proiettato oltre la sua stessa vita artistica. Sette regie che fanno scuola Gente comune : il dolore borghese e l’Oscar. In mezzo scorre il fiume : acqua e destino. Quiz Show : la verità truccata in prime time. L’uomo che sussurrava ai cavalli : la cura come ascolto. La leggenda di Bagger Vance : sport e metafisica. Leoni per agnelli : la politica e il senso di responsabilità. La regola del silenzio : il bilancio di una generazione di idealisti. Sundance: l’eredità più grande Redford non è stato solo attore e regista: è stato fondatore di un ecosistema. Nel 1981 crea il Sundance Institute e il Sundance Film Festival. Con quella scelta, trasforma lo Utah in una capitale del cinema indipendente. Da lì sono passati Quentin Tarantino, Steven Soderbergh, Jim Jarmusch, Kevin Smith, Darren Aronofsky, Christopher Nolan. Sundance è stato il suo regalo più grande al futuro: un luogo dove il cinema non si misura in incassi, ma in libertà creativa. Bellezza e responsabilità: le sue parole Le sue citazioni raccontano la sua filosofia: "Ho sempre apprezzato la diversità. Credo che la cultura americana sia fondata sulla diversità". "Un giornalismo valido e accurato difende la nostra democrazia. Le parole sono armi". "Il disastro del Golfo è il prodotto di una politica energetica fallimentare". "Il Watergate non fu un singolo evento, ma una storia che si svolse in 26 mesi". Sono frasi che spiegano perché Redford non si è mai accontentato della superficie: voleva sempre scavare sotto. Due scene per capirlo in cinque minuti Il parcheggio sotterraneo di Tutti gli uomini del presidente: tensione pura, senza spari, solo verità che serpeggia. La barca che affonda in All Is Lost: l’uomo solo, il corpo come ultima parola, cinema ridotto all’essenza. Attore + regista = la formula Redford Da attore ha insegnato che il mito può nascondere fragilità Da regista ha dimostrato che il cinema popolare può essere etico. Da attivista ha ricordato che la bellezza va difesa con responsabilità. Premi, riconoscimenti e gratitudine Due Oscar, un Leone d’oro alla carriera, la Presidential Medal of Freedom, la Legion d’onore. Ma più che i premi, resta la gratitudine di generazioni di spettatori e cineasti che hanno imparato grazie a Redford che il cinema può essere intrattenimento e coscienza insieme. perché Redford ci riguarda ancora Redford ci insegna che la bellezza senza responsabilità è solo superficie. Che il divismo può diventare etica, che il classico può contenere il contemporaneo, che un festival può cambiare il destino di un cinema intero. È morto un uomo, ma resta un metodo, un archivio di immagini, una voce morale. E forse il suo addio ci invita a ricordare che il cinema non è solo sogno: è anche scelta. E in fondo, pare ancora di vederlo sorridere sulle note di The Entertainer, la melodia de La stangata che accompagna il più elegante degli inganni: quello di farci credere che il tempo non passi mai. Perché è proprio grazie all’arte che il tempo si sospende, e l’arte, più forte della morte, continua a parlarci.

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Robert Redford, il mito che ha cambiato Hollywood: perché il suo cinema ci parla ancora

Paolo Nizza