Perché AGON è un film-esperimento ben riuscito

“AGON” è il primo film distribuito nelle sale italiane da MUBI. Ed è anche l’esordio alla regia di Giulio Bertelli. È un film ibrido, nel senso che non è mai una cosa soltanto. Unisce i linguaggi, sfrutta i generi, crea un mondo simile al nostro, partendo però da un presupposto fittizio: i Giochi di Ludoj. Le tre protagoniste – interpretate da Alice Bellandi, campionessa di judo che mantiene il suo nome, Yile Yara Vianello e Sofija Zobina – sono tre atlete che si allenano prima dell’inizio delle competizioni. E, in questo, “AGON” segue tanto l’andamento quanto l’impostazione di un documentario: la camera rimane fissa; le scene, spesso, sono avvolte dal silenzio; ascoltiamo quello che le protagoniste si dicono e ci affidiamo completamente alle immagini. A seconda dello sport, cambiano i movimenti e il senso stesso dei gesti. Se, per esempio, con il judo e la scherma sembra di assistere a una danza, con il tiro a segno ogni cosa rallenta, si fa più densa e precisa. Un respiro non è più solo un respiro: è un modo per prepararsi, per trovare la propria dimensione, per mettere il mento nel posto giusto e aprire con calma l’occhio con cui prendere la mira. Le pause assumono un ruolo specifico, come la punteggiatura all’interno di un discorso. “AGON” prova a intrecciare tre trame differenti, ognuna incentrata su una delle tre protagoniste. E quella più interessante, proprio per la sua aderenza alla realtà, è la trama che segue il personaggio di Bellandi. La sua fisicità, la sua forza e la sua intensità sono reali. Palpabili. Anche se vengono aggiunti elementi di finzione , è tutto più credibile e concreto. Perché lineare, concentrato, mai sopra le righe. Bertelli alterna riprese in contesti che non seguono nessuna sceneggiatura come il mercato del pesce a sequenze scritte, dove gli attori hanno monologhi, dove ci sono dialoghi fitti, a volte sussurrati, altre volte ad alta voce, e la finzione gioca un ruolo centrale: quello di attirare l’attenzione del pubblico, di coinvolgerlo, di invitarlo a fidarsi di quello che sta vedendo e ascoltando. In “AGON” i rumori sono fondamentali. Sospiri, grugniti, sforzi. Mugolii di piacere. E poi la presa delle mani, la pressione delle ginocchia, le urla degli allenatori. C’è una scissione netta tra la dimensione della camera, che guarda sempre da una parte, dividendo a metà la scena, e la dimensione del racconto, che avviene a mano a mano che la storia va avanti. Le tre protagoniste sono bravissime: Yile Yara Vianello e Sofija Zobina, attrici professioniste, si calano nella loro parte e fanno di tutto per rendere i loro ruoli tridimensionali, veri, riconoscibili; Bellandi, invece, è una non professionista, eppure alla sua prima prova capisce subito cosa fare per superare l’ostacolo del meccanismo recitativo affidandosi totalmente a ciò che conosce. E quindi la tecnica del judo, la posizione del corpo, la linea che disegna con le spalle, l’altra persona che le sta davanti. Quando deve interpretare il suo ruolo, quando cioè deve seguire la sceneggiatura e le direzioni di Bertelli, Bellandi non strafà, non esagera, non prova a insistere o a colmare i vuoti con espressioni eccessive o palesemente finte. Si abbandona al ritmo della storia, aspetta, studia, ascolta quello che le viene detto. E il risultato finale è un’interpretazione solida, in cui tanto la finzione quanto la verità dell’esperienza personale si perdono, sovrapponendosi e intrecciandosi con forza. Non è un’esagerazione dire che “AGON” è un esperimento. Proprio per il suo continuo tentativo di tenere insieme due anime distinte, due anime che – per certi versi – sono in contraddizione tra di loro: il documentario e il racconto di finzione. Bertelli però riesce a trovare una terza via, una terza dimensione, in cui c’è spazio per entrambe le cose. Alcune scene, come quella dell’allenamento con il computer, come in un videogioco, o quella sott’acqua, rischiano pericolosamente di superare il limite che la stessa regia, con le sue promesse, ha imposto e delineato. Poco prima che questo possa succedere, Bellandi si ferma, torna alla concretezza della messa in scena e, come dicevamo prima, ai movimenti tipici di ogni sport.

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Perché AGON è un film-esperimento ben riuscito

Gianmaria Tammaro