"Avicii - I'm Tim", l'eredità del ragazzo-artista in un documentario

Ha detto Henrik Burman, il regista di “Avicii – I’m Tim”, in streaming su Netflix, che il suo obiettivo è sempre stato quello di girare un documentario onesto e rispettoso. Non ha mai voluto indagare sulla morte di Avicii né sfruttare l’accesso privilegiato alla sua famiglia per costruire un racconto drammatico e disperato. È partito dalla sua infanzia, dal bambino che era, dagli scherzi che faceva in continuazione a chiunque e che poi, dopo un’epifania, ha smesso di fare. Successivamente si è spostato alla sua adolescenza, al suo tentativo di essere gentile con tutti , fino all’università. Qui Tim è diventato Avicii. Ha conosciuto la musica house, ha cominciato a usare il computer e a produrre, e piano piano si è ritagliato uno spazio nella scena di Stoccolma. Ogni cosa è cambiata quando ha incontrato il suo manager, Ash, che gli ha immediatamente promesso fama e successo. E così è andata. Avicii, cioè Tim, si è trovato davanti a un bivio: abbracciare questa nuova strada, essere fino in fondo chi pensava di desiderare di essere, oppure farsi indietro, tornare alla sua vita, alla sua normalità ed essere uno studente come tanti altri. La musica ha scelto per lui. Sono arrivati i primi tour, le prime serate in discoteca, e Avicii si è trasformato in un tormentone: l’artista del momento, il genio, il talento, il futuro della musica. Burman è stato tanto bravo da soffermarsi a lungo, per buona parte del documentario, su questa dualità tra il ragazzo-artista e il ragazzo-fenomeno. E ha costruito con cura e attenzione un racconto parallelo, che parla del peso della visibilità e di quanto sia difficile convivere con le aspettative degli altri. La fama di Avicii, però, non si è mai limitata al pubblico; è andata rapidamente oltre, raggiungendo colleghi, etichette discografiche e organizzatori di eventi. Burman ha usato l’Ultra Music Festival di Miami, dove Avicii aveva presentato la sua nuova musica ed era stato fischiato, per il giro di boa del documentario. Nonostante l’apparente battuta di arresto, la sua carriera non accennò a rallentare. Al contrario, dopo relativamente poco tempo, riuscì a trovare una nuova strada da percorrere. E se prima il successo di Avicii era un successo tutto sommato limitato, contenuto tra i confini del genere, da quel momento diventò globale: Avicii sapeva come fare musica, leggeva e interpretava le melodie come pochi altri; in un paio di sessioni in studio, era in grado di creare un nuovo brano, registrarlo e finirlo. Sentiva, più e meglio dei suoi colleghi, quello che la musica – nella sua universalità e nella sua ricchezza – può comunicare alle persone. E in questo senso, suggerisce Burman, Avicii si era trasformato in una specie di amplificatore perché dava voce, spazio e consistenza ai pensieri che tantissime persone in tutto il mondo avevano. A parte la visione della regia, l’altro aspetto davvero interessante di “Avicii – I’m Tim” è il montaggio di Orvar Anklew e Kalle Lindberg. Che non solo riesce ad affiancarsi alla scrittura, a esaltarla e – in qualche modo – a ispessirla, ma trova anche una sua dimensione, ulteriore e parallela, dove le immagini seguono un loro andamento e ogni sequenza e ogni più piccolo taglio sono avvolti – intrisi, addirittura – di musica. Ci sono documentari che vogliono limitarsi a fotografare una situazione e a presentarla al pubblico, senza intervenire direttamente, senza provare a sostenere nessuna tesi; e sono documentari rigorosi, puntuali, stilisticamente e contenutisticamente ineccepibili. E poi ci sono i documentari come questo, appassionati e appassionanti, che non si fanno problemi a farsi avanti, ad aggiungere, sottolineare, a prendere una parte e a dilatarla nello spazio del racconto e a soffermare lo sguardo della camera – e, quindi, dello spettatore – su qualcosa in particolare. Attenzione, però: questo approccio più emotivo, e non per questo meno a fuoco, non sottintende l’intenzione di santificare o vittimizzare la persona raccontata. Prova, al contrario, a tenere insieme tutto: le luci, le ombre, la speranza, il talento; la dipendenza, la paura e il dolore. Se c’è un tema che fa da filo rosso tra la prima e la seconda parte del film, sia quando Avicii, cioè Tim, era poco più di un ragazzo iscritto all’università, indeciso sul suo futuro e su cosa diventare, sia quando è arrivato sui palchi di mezzo mondo, a suonare per folle enormi e senza fine, è la felicità. Per la sua ineffabilità, inconsistenza e approssimazione. Avicii ne parla spesso ; e spesso torna su quello che ha imparato, su quest’idea che, fin da piccolo, gli è stata tramandata ma che nella realtà della sua vita, nella nuova quotidianità in cui si è ritrovato, non ha alcun senso. Ed è questa distanza enorme tra ciò che sa, o che pensa di sapere, e ciò che prova realmente a tormentare il ragazzo-artista. Alla fine restano i ricordi degli amici, dei collaboratori e, ovviamente, della famiglia. E restano le canzoni, i brani e tutta la musica che Avicii ha scritto e prodotto. Oltre la star, l’uomo.

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