"State a casa", la recensione del nuovo film di Roan Johnson. Dal 1° luglio nei cinema

Cinema

Alessio Accardo

Arriva nelle sale la pellicola firmata dal regista di "I Delitti del BarLume." Nel cast Dario Aita, Giordana Faggiano, Lorenzo Frediani, Martina Sammarco e Tommaso Ragno. La pellicola è prodotta da Palomar e Vison distribution, in collaborazione con Sky 

È uno strano film State a casa, dal 1° luglio nelle sale; un'opera ipnotica e disturbante. È un film cinefilo innanzitutto, cibandosi spudoratamente di prestiti conclamati da tre cult-movie della metà degli anni ’90, che sono stati senz’altro pane quotidiano nella formazione del regista e sceneggiatore, il 46enne Roan Johnson: Piccoli omicidi tra amici di Danny Boyle (1994) , Mariti e mogli di Woody Allen (1992) e L’odio di Mathieu Kassovitz (1995).

Di quest’ultimo, "State a casa" cita quasi alla lettera il mitico incipit con il voice over che pronuncia la nota battuta “fino a qui tutto bene” (che guarda caso è anche il titolo del secondo lungometraggio del regista pisano). Del film d’esordio di Boyle ricalca invece la trama: tre giovani amici che condividono un appartamento scoprono un cadavere e una valigia di soldi. Della commedia di Allen adotta lo stile: è infatti spesso girato in piano sequenza con la macchina a mano che tampina i protagonisti un po’ come faceva nel modello originale quella del direttore della fotografia, Carlo Di Palma.

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La trama di State a casa

E già così si è detto molto, forse pure troppo, su questa black comedy molto poco italiana, diretta dal regista de "I delitti del BarLume", che prova a riflettere sulla terribile pandemia che ci ha costretto a “stare a casa” per oltre un anno.

La storia racconta di tre studenti fuori sede sui trent’anni - un siciliano, una pugliese e un toscano di Piombino - che vivono assieme in un appartamento romano da circa tre anni e mezzo; pagando il canone d’affitto “in nero”, come capita a molti nella realtà, e subaffittando una stanza ad una ragazza di origini africane.

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I protagonisti del film

Il primo aspetto rilevante della commedia di Johnson è costituito dal modo piuttosto preciso col quale sono descritti i protagonisti: Nick\Nicola, il toscano, è insofferente alla retorica dell’”andrà tutto bene”; un complottista, si direbbe, che mal sopporta che “per salvare la generazione più pasciuta della storia del mondo – si riferisce agli ottantenni che, secondo lui, sono i soli a morire di Covid 19 - ci hanno messo a pecora a noi”. Un cospirazionista che brandisce il vessillo un po’ logoro del “noi” contro “loro”.

Benedetta, la pugliese, è descritta come la più spregiudicata, anche sessualmente: protagonista di alcune scene erotiche piuttosto hot per questo genere di film; una delle quali, a beneficio dei social, insieme a una “serpentessa” che si aggira per la casa in modo inquietante.  Paolo, il siciliano, è un informatico, e sulle prime sembrerebbe il più adulto e posato. Ma in questo film vedremo poi che niente è davvero quel che sembra.

Infine, c’è Sabra, l’africana, che dichiara di aver dormito in passato con un morto, su una barca; denunciando così le sue origini di immigrata, e il dramma tragico che spesso questa condizione comporta.

Il loro antagonista è il padrone di casa, che viene descritto come un uomo laido e disgustoso, ricco e profittatore; ed è interpretato magistralmente da Tommaso Ragno, reso celebre dalla serie targata Sky 1992 (e relativo sequel), che qui rispolvera un accento siciliano impeccabile, lui che è pugliese di Vieste.

Non basta: tra i vari personaggi c’è anche una colf moldava che introduce drammaticamente il tema del Covid 19 e un portiere romano che ha il volto dolente di Fabio Traversa, antico sodale del primo Nanni Moretti e interprete del leggendario Fabris di Compagni di scuola di Carlo Verdone. Non manca neppure un accenno alla cronaca criminale d’Italia: la misteriosa presenza di Matteo Messina Denaro, il mafioso più ricercato del mondo.

Il virus siamo noi

Ma al di là del ricco e variegato panorama umano e antropologico, ciò che più colpisce di questo film è il suo stile indefinibile. Nasce come un instant-movie sulla più grande tragedia mondiale dal dopoguerra, prosegue – come già specificato - seguendo gli stilemi della black-comedy d’oltre manica e d’oltralpe; quindi vira sul surreale con l’assurda e insolita presenza - per il panorama nostrano - di morti che parlano e infine diventa un thriller\crime febbrile e lisergico.

Correlato oggettivo del tema “pandemico” è infatti il clima malato e allucinato che si fa strada nella trama, in cui si cominciano ad affastellare nel corso del tempo una serie di visioni angoscianti che fanno rapidamente vacillare il senso della realtà, moltiplicandola in un gioco di specchi onirico e perturbante.

Nel voice over che - come nel nobile esempio già citato - conclude il film, vi è il senso più riposto dell’opera: “L’organismo è la terra, il virus siamo noi”. Noi esseri umani, tutti mostruosi anche gli insospettabili, dietro i visi innocui e innocenti. E per un film italiano non mi pare poco. 

A suggellare il mix di decadenza, follia e joie de vivre che pervade la pellicola, c’è l’inno generazionale Rolls Royce di Achille Lauro, eseguito da Margherita Vicario che ne fa una cover intrisa di ironia e malinconia, che ben rappresenta il tono del film.

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