San Francisco Film Festival 2021, 5 titoli da tener d’occhio

Cinema

di Mauro Bevacqua

COVER-san-francisco-film-festival

Lo scorso 18 aprile si è conclusa la sessantaquattresima edizione della Kermesse  che a causa dei divieti imposti dall'emergenza Covid, si è svolto all'interno di un drive in che si affaccia sulla baia. Ecco una breve sintesi sui film che abbiamo visto nel più antico festival cinematografico statunitense ancora in attività

Dieci giorni, 103 opere presentate (56 corti, 5 mediometraggi, 43 lungometraggi, tra film e documentari), 13 prime mondiali (e altri 15 titoli al debutto sugli schermi nord americani) con 41 Paesi rappresentati. L’edizione 2021 del San Francisco Film Festival ha mixato con successo la formula online a una serie di eventi in presenza (proiezioni ma anche concerti) svoltisi nella metropoli californiana, ovviamente in rispetto delle norme anti-Covid. E se il festival è andato in archivio incoronando il film che lo ha inaugurato lo scorso 9 aprile — “Naked Singularity”, con Olivia Cooke, Bill Skarsgård e John Boyega, a cui è andato il premio del pubblico — di seguito ecco altri 5 titoli che si sono distinti nella rassegna californiana. 

Cuban Dancer

C’è un po’ di Italia nel documentario che si è aggiudicato il premio del pubblico (ex aequo con “Lily topples the world”, racconto del successo planetario della miglior giocatrice di domino al mondo, Lily Hevesh). Innanzitutto perché il regista, Roberto Salinas, vive tra Managua (Nicaragua) e Roma e poi perché proprio a Roma — presentato fuori concorso all’interno della sezione autonoma e parallela della Festa del Cinema di Roma dedicata alle giovani generazioni “Alice nella città” — “Cuban Dancer” era stato visto già lo scorso ottobre. Si segue la storia, unica ma universale, di Alexis, giovane promessa della Cuban National Ballet School, che a 15 anni è costretto a lasciare L’Havana (e il suo primo amore, Yelenia) per seguire controvoglia i genitori e trasferirsi appena fuori Miami, a Pembroke Pines, per ricongiungersi alla sorella già emigrata negli Stati Uniti. Atto d’amore verso il mondo dell’arte — e nello specifico del balletto — ma anche di un certa identità cubana, il documentario racconta tanto i dolori della “despedida” (l’addio all’isola, passaggio spesso obbligato per molti) quanto l’orgoglio di un popolo, riassunto perfettamente dalle parole di Alexis nella scena conclusiva del documentario: “Essere cubani vuol dire essere guerrieri. Abbiamo la lotta nel sangue. C’è qualcosa di caratteristico in noi cubani: non molliamo mai”. 

approfondimento

Vai al sito ufficiale del San Francisco Film Festival

This is my desire

Un po’ di Italia — ma questa volta nella narrazione — si ritrova anche nell’esordio (premiato per la regia) dei gemelli Arie e Chuko Esiri, nati in Nigeria, cresciuti nella capitale Lagos ma diplomatisi a New York. Il loro “This is my desire” — visto già a Berlino — si concentra sulla storia di due personaggi, un uomo (Mofe) e una donna (Rosa), e sul loro sogno comune di lasciare la Nigeria per un futuro migliore. E se il primo ha la Spagna come destinazione dei sogni, la seconda vorrebbe proprio approdare in Italia, ma mentre la realtà quotidiana delle loro vite — tra il mondano e il tragico — scorre sullo schermo, è proprio la capitale nigeriana che entrambi desiderano lasciare a diventare una sorta di terzo personaggio del film. 

NakedSingularity_Screen_byPamelaGentile_005

approfondimento

San Francisco, il festival si vede al drive-in

Nudo Mixteco

Una speciale sezione (di sei titoli) dell’edizione 2021 del San Francisco Film Festival è stata dedicata al “Cine mexicano” e il premio della critica (inaugurato quest’anno) è andato a questo film dalla struttura circolare che racconta le storie intrecciate di tre personaggi — Marìa, Esteban e Toña — il giorno in cui si ritrovano, sfiorandosi, nel paesino di San Mateo. Nelle parole della regista Àngeles Cruz, “è un film che parla di migrazioni, povertà, abusi sessuali e amori saffici che le donne sono costrette a nascondere per evitare di essere stigmatizzate dal machismo ancora imperante in tante comunità messicane”, e della necessità sempre più urgente di presentare voci capaci di opporsi a queste realtà. Come questa.

Seyran Ates: sex, revolution and Islam

Se la regista (Nefise Özkal Lorentzen) è metà norvegese e metà turca, anche la protagonista (Seyran Ates) è nata a Istanbul (da genitori uno turco l’altro curdo) ma è poi emigrata a Berlino, dove è diventata avvocatessa e dove quattro anni fa ha fondato la moschea Ibn Rushd-Goethe, il primo luogo di culto islamico aperto a tutti, uomini e donne, eterosessuali e gay, sunniti, sciiti e non musulmani. Con un messaggio apertamente provocatorio: “L’Islam ha bisogno di una rivoluzione sessuale”. Come quella che l’Occidente ha avuto negli anni ’60, ma che 60 anni dopo a Seyran Ates è valsa una fatwa, continue minacce di morte e la compagnia ormai irrinunciabile di una serie di guardie del corpo, che proteggono giorno e notte questa coraggiosa attivista, che porta indifferentemente il suo messaggio alle prostitute dei bordelli di Berlino e agli uiguri perseguitati in Cina.

I’m fine (Thanks for asking)

Una danza scatenata sui titoli di testa come quella della protagonista Kelley Kali (anche regista) in “I’m fine (Thanks for asking)” non la si vedeva dai tempi di Rosie Perez sulle note di “Fight the power” in “Do the Right Thing” di Spike Lee (e a un certo punto del film uno dei personaggi secondari urla proprio “Fa’ la cosa giusta” a un amico in strada…). Ma se di citazioni bisogna parlare, quelle più evidenti rimandano al cinema — e soprattutto alla palette di colori — di Sean Baker nel piccolo gioiello “Un sogno chiamato Florida”. Girato durante la pandemia con un budget bassissimo, e accolto molto bene al South by Southwest Festival di Austin, Texas, “I’m fine (Thanks for asking)” segue le peripezie di Danny e Wes. Sono madre e figlia, la prima giovanissima e già vedova, la seconda che ha solo 8 anni: la tragedia che le ha colpite le ha lasciate senza soldi e senza un tetto sopra la testa. Ma con un po’ di fantasia e tanta voglia di vivere, anche le notti accampate in tenda ai margini della San Fernando Valley possono diventare una divertente avventura in campeggio.

After Antartica

Per chi è ancora convinto che il riscaldamento globale sia un problema recente e che i tentativi di sensibilizzazione dell’opinione pubblica siano iniziati con i sit-in di Greta Thunberg, questo affascinante documentario firmato dalla bravissima filmmaker locale Tasha Van Zandt racconta la spedizione in Antartica organizzata ancora nel 1989 riunendo in missione sei esploratori di sei nazionalità diverse — un francese, un britannico, un sovietico (che al Polo Sud scopre della caduta del muro di Berlino), un cinese, un giapponese e uno statunitense, Will Steger, che del documentario è l’io narrante. Un’impresa durata sette mesi, con oltre 6.000 chilometri percorsi a piedi (con il solo ausilio dei cani da slitta) per un progetto dalla vocazione globale pensato per stimolare una risposta globale. Mancata allora come manca ancora oggi, a più di 30 anni da quella storica spedizione. 

Spettacolo: Per te