Il Commediante On Demand Presenta Acqua e Sapone

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Alessio Accardo

Alessio Accardo

Nel consueto spazio dedicato alla commedia italiana, ci occupiamo di un deliziosaoed esilarante film del 1983 diretto e interpretato dall'attore e regista romano

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Oggi noi ci occupiamo di Acqua e sapone, diretto e interpretato nel 1983 da Carlo Verdone.

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I “NUOVI COMICI” DEGLI ANNI OTTANTA

La commedia all’italiana propriamente detta, come ormai saprà chi si è dato la pena di seguire questa rubrica, si è lentamente eclissata nel corso della seconda metà degli anni ’70, per una serie di motivi che abbiamo già spiegato. Primo fra tutti, il mutamento del clima sociale, che non era più quello allegro e un po’ incosciente della società del boom economico, ma piuttosto quello grigio e rosso degli anni di piombo. Insomma, come fa dire all’alba del nuovo decennio Carlo Verdone allo strabico frequentatore del cimitero di Bianco rosso e verdone: “Qui non c’è niente da ridere”.

Sarà proprio Verdone a tentare di tenere alto il vessillo della commedia all’italiana, quando ormai tutti lo stavano ammainando, proprio con Bianco, rosso e verdone (1981), e ancor prima col suo film d’esordio, Un sacco bello (1980). Due commedie che trasferiscono sul grande schermo la comicità macchiettistica che il comico romano aveva rodato, per anni, nei suoi indimenticabili numeri di cabaret televisivo.

Figlio di un noto docente universitario di storia del cinema, nonché dirigente del Centro Sperimentale di Cinematografia e critico cinematografico, il famoso Mario Verdone; dopo essersi dilettato in certi cortometraggi in Super8, il giovane Carlo inizia a cimentarsi nel cabaret, con tutta una serie di personaggi fortemente caratterizzati e ricavati dall’attenta osservazione della realtà. Del resto, per i giovani attori della sua generazione, il cabaret è stato quello che per la generazione precedente era stato il teatro d'’avanspettacolo, la rivista, il teatro di varietà o più raramente quello di prosa.

Per tutti loro, lo step successivo sarà il trasferimento di questi numeri da cabaret sul piccolo schermo televisivo (si pensi al primo Troisi, quando ancora militava ne “La smorfia”), oppure direttamente l’esordio sul grande schermo. In un contesto nel quale la “macchina cinema” era già considerata meno pesante e si poteva pensare di debuttare - come capitò a molti - facendo contemporaneamente l’attore, lo sceneggiatore e il regista.

Verdone viene allora inserito dalla critica contemporanea, forse disorientata da uno scenario cinematografico così repentinamente mutato, nella categoria del “nuovi comici”; comprendente una serie di autori-attori che esordiscono tutti in quella congiuntura storica, ovvero: Nanni Moretti (Io sono un autarchico, 1976), Roberto Benigni (Berlinguer ti voglio bene, 1977), Maurizio Nichetti (Ratataplan, 1979), Massimo Troisi (Ricomincio da tre, 1981), Francesco Nuti (Ad ovest di Paperino, 1981, ancora col gruppo dei “Giancattivi”). Tutti cineasti che, rispetto ai loro omologhi di dieci anni prima, sembrano sviluppare le proprie narrazioni cinematografiche aderendo a una sorta di minimalismo quotidiano, in cui ciò che più conta non son più le grandi storie eroicomiche (che spesso finivano per incrociare la Storia colla “esse” maiuscola), ma piuttosto un cronachismo privato, quasi gozzaniano, che parrebbe acquisire senso nell’attimo esatto in cui viene raccontato.

Ebbene, all’interno di questo gruppo di giovani venuti su col cabaret cine-televisivo (che non è né un movimento né una scuola; come in fondo potevano ancora esser considerati sia il neorealismo che la commedia all’italiana), Verdone è quello che più di ogni altro è riuscito a incarnare la continuità tra il vecchio e il nuovo, stabilendo un rapporto di filiazione artistica principalmente con Alberto Sordi. Un viaggio con papà (1982), diretto e co-interpretato da Sordi, certifica tale filiazione mai rinnegata, che deve tuttavia essere rintracciata più nel lascito umano e culturale che nella tipologia recitativa e registica. Insomma il regista di Acqua e sapone sembra essere l’unico della sua generazione a non vergognarsi di guardare ancora alla commedia all’italiana come a un modello di riferimento, anzi egli ne rivendica i lasciti culturali, provando ad adeguarli ai tempi nuovi.

Si tratta tuttavia – come si diceva - di un retaggio che si intende trasmesso più in termini di riferimenti affettivi che di temi e stili. A ben vedere, infatti, le prime due pellicole dirette e interpretate dal nostro, sopra citate, non sono paragonabili a nessuna commedia all’italiana delle due decadi precedenti, trattandosi semmai di un assai peculiare fenomeno, tutto contemporaneo, di derivazione cinematografica dalla comicità da sketch cabarettistico praticata precedentemente a lungo in tv. In fondo, quel che maggiormente eredita dal cinema dei padri Verdone (e soprattutto di quel padre putativo che è stato per lui Alberto Sordi), è per lo più la capacità di stabilire un rapporto di straordinaria empatia colla sua contemporaneità, quasi da pedinamento zavattiniano 2.0, tale da replicarne tic, mode e manie; poi deformati nella sua tipica comicità fatta di satira bonaria.

Per ritrovarne un altro si dovrà aspettare un decennio e una nuova generazione di registi, quando Paolo Virzì da La bella vita (1994) in poi inizierà a praticare un tipo di commedia dichiaratamente debitrice nei confronti del cinema scritto dallo sceneggiatore Furio Scarpelli, da cui eredità una buona quota di cifra stilistica.

Gli altri debuttanti di fine ’70 inizio ‘80 sembrano tutti piuttosto disinteressati all’ipotesi di raccogliere il testimone di quello che da molti di loro veniva considerato, in tutti i sensi, un cinema de papà (per usare una terminologia cara ai giovani dei Cahiers du cinéma che poi faranno la Nouvelle Vague). Un disinteresse che in certi casi diventa aperta ostilità, come ci insegna l’accesa querelle tra Nanni Moretti e Mario Monicelli durante la famosa trasmissione televisiva di Alberto Arbasino, Match, a proposito di Un borghese piccolo piccolo (1977), ma anche la battuta fulminante e inappellabile con cui, in Ecce bombo (1978), il suo alter-ego, Michele Apicella, stigmatizza il qualunquista da bar per cui “rossi e neri sono tutti uguali” con un perentorio “te lo meriti Alberto Sordi!”.

 

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BUONO, ONESTO E VERDONE

E tuttavia, già alla sua terza regia, Borotalco (1982), Verdone sembra volersi affrancare dai suoi personaggi cabarettistici, provando a esperire la ricerca di una nuova, più personale, cifra stilistica: quella della commedia sentimentale.

Qui il comico romano abbandona coraggiosamente il format del film-sketch a episodi intrecciati, che lo aveva reso famoso, realizzando per la prima volta un film in cui interpreta un solo personaggio per tutta la durata della pellicola. Un personaggio che gli assomiglia maledettamente: ha infatti la sua stessa faccia priva ormai delle borchie e delle parrucche indossate dalle macchiette del passato, e che Verdone definirà via via nel corso di tutta una carriera.

Un personaggio che, come capita a questa generazione di nuovi comici (genericamente, dunque, più narcisisti dei predecessori), occupa quasi sempre il centro di ogni inquadratura del suo cinema; e che, al netto di qualche lieve mutamento caratteriale - dovuto all’intimo bisogno di rimanere costantemente al passo coi tempi - rimane in fondo immutabile; rifrangendosi tuttavia sui cambiamenti di una società raccontata, per suo tramite, con un tempismo davvero portentoso.

Un personaggio che sembrerebbe quasi l’incarnazione trasteverina dell’ottimismo “buonista” (che pero ancora non si chiamava cosi) di un Frank Capra, in commedie nella quali più che la critica sociale conta il candore malinconico. Un buon diavolo, timido e impacciato, quasi sempre onesto e per lo più generoso. “Un perdente al quale la vita concede sempre prima o poi qualche dolce consolazione.” Come osserva, Enrico Giacovelli.

Un “tipo fisso” che - in modo non troppo diverso da quelli che stavano definendo in quegli stessi anni i già citati Moretti, Troisi, Nuti, etc. - ha un atteggiamento nei confronti delle donne improntato a un mix di rispetto e timore che non può dunque non essere considerato, in qualche misura, generazionale (si pensi, ad esempio, alla celebre telefonata ancora di Moretti, in Ecce bombo, nella quale il protagonista si ingarbuglia ripetendo una serie di “Tu mi intimidisci molto”).

In fondo questi maschi, divenuti uomini a cavallo tra gli anni ’70 e gli ’80, sono molto diversi dai predatori della generazione precedente, quelli incarnati film dopo film dai vari Gassman, Sordi e Tognazzi. E il motivo è socio-culturale oltre che storico: tra le due generazioni si era sviluppata, non solo in Italia, la cosiddetta rivoluzione sessuale, che ha avuto come conseguenza immediata l’emancipazione almeno parziale della donna: si pensi anche solo alle conquiste delle leggi su divorzio e aborto e dell’uso della pillola anticoncezionale.

Il maschio di questa congiuntura non era dunque più il seduttore affetto da gallismo della società del boom, ma un individuo decisamente più insicuro e vulnerabile. Un re che aveva, finalmente, perduto il suo scettro. Come il protagonista di Acqua e sapone, per esempio, il quale però talvolta smette la maschera dell’imbranato per indossarne un’altra delle migliori del repertorio di Verdone, quella dello sbruffone, o del “coatto” Del resto fu proprio Verdone a rendere celebre questo classico “tipo fisso” della commedia umana romana, già in Bianco rosso e Verdone, grazie al megalomane con ciuffo alla Elvis, che millanta doti amatorie tutte da dimostrare per farsi bello agli occhi dell’amico. Un’altra tipica “maschera” del repertorio verdoniano, “indossata” anche in questo film, è quella del (finto) prete. Come a dire che, pur rinnovandosi, il suo cinema non riesce ancora a rinunciare a certi must.

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Il cambio di format inaugurato in Borotalco, non è il solo segno di discontinuità rispetto Qui Verdone, sempre autore di soggetto e sceneggiatura dei suoi film, si priva per la prima volta dell’egida creativa del grande Sergio Leone (che aveva prodotto e supervisionato i suoi primi due film da regista); e della collaborazione dei navigati Leo Benvenuti e Piero De Bernardi (gli sceneggiatori della saga di Fantozzi), affidandosi a uno degli astri nascenti della nuova commedia italiana: il ligure Enrico Oldoini, che in seguito diverrà pure regista, dirigendo alcuni cine-panettoni come Yuppies 2 (1986), Vacanze di Natale '90 (1990) e Anni 90 (1992).

Acqua e sapone si colloca sulla falsariga di Borotalco: è un’altra commedia sentimentale scritta e sceneggiata ancora con Oldoini; al quale qui si aggiunge un altro giovane sceneggiatore emergente come Franco Ferrini, coetaneo e conterraneo del primo: sono infatti entrambi nati a La Spezia.

È qui che si precisa meglio la direzione che Verdone ha deciso di intraprendere. Il cinema di cui Acqua e sapone è un magnifico esempio più che la commedia all’italiana degli anni ’60, sembra infatti riecheggiare certe atmosfera da sophisticated comedy d’antan o di rom-com della Hollywood dei suoi tempi. E se proprio si volesse trovare un antesignano nostrano, lo si cercherebbe invano nella perfida satira dei Risi e Monicelli, e in fondo neppure in quella del padre putativo Sordi (tolto quello delle macchiette radiofoniche degli esordi, poi replicate al cinema: in fondo tra il logorroico Furio di Bianco, rosso e Verdone e il protagonista di Mamma mia che impressione qualche affinità era ancora rinvenibile), ma lo si dovrebbe piuttosto cercare nelle garbate commedie brillanti girate da Mario Camerini negli anni ’30 e ’40, come I grandi magazzini (1939).

A ben vedere Acqua e sapone gioca ancora e sempre sul vecchio espediente plautino del “sosia”, con la classica sequenza: scambio di persona, commedia degli equivoci, e agnizione finale; usato proprio da Camerini ne Il signor Max (1937) con Vittorio De Sica, e poi rifatto negli anni ’50 da Alberto Sordi, col remake Il conte Max (1957) di Giorgio Bianchi.

O al limite lo si potrebbe cercare nel “neorealismo rosa” degli anni ’50, tra l’innocente cinema dei buoni sentimenti capitolini dei “poveri ma belli” e quello coevo dei “pane, amore e fantasia”. Insomma una commedia col lieto fine quasi sempre incorporato.

Tra i tanti modelli di riferimento però, quello più appropriato a questa seconda fase della carriera di Verdone, parrebbe essere la cosiddetta screwball comedy americana, nella quali le eroine sono quasi sempre delle donne brillanti ed emancipate (come Carole Lombard e Katharine Hepburn); e che qui sono invece interpretate dalle varie Eleonora Giorgi, Onella Muti, e Margherita Buy; e poi soprattutto Claudia Gerini, la sua più assidua co-protagonista.

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TRA LAGUNA BLU E VASCO ROSSI

Nel 1980 era uscito un film a cavallo tra erotismo patinato e un ritorno alla natura un po’ oleografico: Laguna blu (1980), di Randal Kleiser. Uno dei motivi del suo strepitoso successo era nel cast: l’interprete femminile di questa love-story negli azzurri mari del sud era la quattordicenne Brooke Shields. Ebbene, prima di diventare una diva cinematografica dalla fortuna piuttosto effimera, per la verità, la bellissima adolescente era stata al centro di una serie di reportage giornalistici a proposito dello lo sfruttamento commerciale di certe belle figlie da parte di madri insensibili.

Verdone e i suoi sceneggiatori, per stendere il copione, prendono così spunto da un servizio giornalistico della Rai, realizzato da Carlo Sartori, sul fenomeno delle cosiddette baby modelle, nel quale, facendo esplicito riferimento al caso della Shields (la quale era peraltro già apparsa sul grande schermo, ancora più giovane, nel torbido Pretty Baby (1978) di Louis Malle) si raccontava di come certe madri, non molto sensibili alla necessità di uno sviluppo psicologico equilibrato delle cosiddette “figlio prodigio”, le privavano di una serena infanzia per condurle al successo a ogni costo.

Sulla scorta di questo spunto Verdone, Oldoini e Ferrini scrivono la storia di Sandy, una giovanissima fotomodella americana che, per ragioni di lavoro, deve trascorrere tre mesi a Roma, insieme alla madre, che è anche la sua terribile e opprimente manager. Non troppo diversamente dal modello di riferimento, anche la Sandy di Acqua e sapone ha vissuto una vita ricca solo di privazioni: “Io e da quando sono nata che sto sotto.” – risponde al personaggio di Verdone che le domanda: “Hai tutto, ma che cos’è che ti manca?” E ancora: “Ho cominciato a sei mesi con la pubblicità dei pannolini, poi sono passata ai vitaminizzati, dopo allo shampoo per bambini, cracker, chewing-gum e adesso eccomi qua” Insomma, proprio come Brooke Shields.

A Roma Sandy, alla ricerca di un precettore che l’aiuti a continuare gli studi, s’imbatte in un giovane bidello (Verdone) che per assicurarsi il lauto guadagno previsto, assume le sembianze di un sacerdote italoamericano.

E qui, solo qui, sopravvive una seppur blanda reminiscenza del cinema di Risi-Monicelli: benché si sia laureato con 110 e lode, Rolando Ferrazza (così si chiama il personaggio interpretato dal regista) è costretto a fare il bidello in una scuola di suore. Eccola la sola concessione del film a una velata critica sociale, su un tema peraltro endemico come la disoccupazione (o come in questo caso la sottooccupazione) giovanile. Talmente endemico da apparire eterno e quindi poco ficcante sotto il profilo della satira; che come si è tentato di argomentare non è precisamente la finalità precipua di questo regista e di questo film.

Se la prima scaturigine del film è Brooke Shields i titoli di coda sono di un altro mito pop degli anni ’80, e non solo: Vasco Rossi. È qui che risuonano le note della title track, Acqua e sapone, per l’appunto, che è stata scritta dal cantautore di Zocca, musicata da Gaetano Curreri e cantata dagli Stadio.

La si era già sentita sui titoli di testa, ma su quelli di coda diventa elemento diegetico: Rolando, ormai rassegnato a non rivedere più il suo amore ragazzina, sta con tre amici ad aspettare gli aerei che atterrano in una campagna dalle parti di Fiumicino, finché uno dei tre, al grido di “senti che forza ‘sto pezzo!”, alza il volume e parte il brano.

A quel punto, un poco incongruamente rispetto a quanto si era visto finora nel film, i tre amici ballano assurdamente, assecondando un certo tipo di comicità vagamente surreale, che era propria di quei tempi; e che si trova in forme diverse nel cinema sia di Nuti che di Moretti. Per non parlare di Maurizio Nichetti, che sulla svagatezza surreale ha costruito la propria cifra stilistica.

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I SEGRETI DI UN CAST RICCO DI SORPRESE

In un cast dalla composizione bizzarra, in cui c’è persino il professor Michele Mirabella, nel ruolo di un manager italiano della modella bambina; troviamo in un piccolo cameo, come presentatore di una sfilata di moda, Christian De Sica, amico nonché cognato di Verdone; il quale ancora stentava a trovare una propria identità cinematografica, tanto da suscitare qualche perplessità nei produttori di Sapore di mare, girato proprio in quegli stessi mesi. Con Vacanze di natale, in sala in quello steso 1983, la sua carriera decollerà senza fermarsi più.

La madre-virago della modella è Florinda Bolkan, in un ruolo che era stato pensato per Virna Lisi. Affascinante attrice brasiliana, la Bolkan aveva goduto di una certa notorietà nel corso degli anni ’70, quando era ritenuta adatta ad incarnare degli oscuri oggetti del desiderio maschile, sempre in pericoloso equilibrio tra il torbido e l’esotico, il più noto dei quali è forse il ruolo di Augusta Terzi, amante perversa del poliziotto psicopatico e represso interpretato da Gian Maria Volonté, in Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) di Elio Petri. Qui recita il ruolo di Wilma Walsh, un’ex attrice dalla biografia in fondo non troppo dissimile da quella della Bolkan, la quale, dopo i fasti degli anni ’60 e ’70, a quel punto della sua carriera si stava eclissando dal panorama cinematografico, dedicandosi piuttosto a ruoli televisivi come quello della contessa Olga Camastra in due stagioni della serie-tv, La piovra.

Il vicino di casa di Rolando, il trucido Enzo (“Tu che già c’hai fatto, che dici? Come parto? Sur manzo o sur gajardo subito?”), è interpretato da Fabrizio Bracconeri, al suo esordio assoluto. Conosciuto in passato da Verdone nell'autofficina in cui lavorava, viene scritturato poiché si cercava qualcuno che parlasse in romanesco come la sora Lella. Dopo una discreta fortuna per lo più televisiva, soprattutto nella serie-tv, I ragazzi della 3ª C, di Claudio Risi (1987-1989); più di recente BRacconeri si è dedicato alla politica, candidandosi nel 2014 alle elezioni europee per Fratelli d'Italia.

Ma la vera stella del film è la sorella di Aldo Fabrizi, Elena, fino ad allora semisconosciuta caratterista adatta a ricoprire ruoli di popolana romana dalla stazza matronale, come in C’eravamo tanto amati (1974) o La terrazza (1980), entrambi di Ettore Scola. È però Verdone a trasformarla in una vera leggenda, già dal precedente film, Bianco, rosso e Verdone (1981) in cui interpretava la nonna di Mimmo, come in Acqua e sapone è la nonna di Rolando. Da qui in poi diventa un autentico personaggio di culto, nota a tutti come la sora Lella.

È lei a garantire al film i siparietti comici più divertenti. Indimenticabile quello della telefonata in cui la sora Ines (come si chiama nel film) si dovrebbe spacciare per la segretaria particolare di quel precettore, padre Spinetti, per cui si è contrabbandato suo nipote, sfoggiando quindi un italiano forbito. Strategia che, nonostante le migliori intenzioni e pure una sessione di prove generali, naufraga miseramente allorquando, proprio al momento della telefonata, entra proditoriamente in cucina un gatto che la fa sacramentare usando i più turpi epiteti romaneschi.

Per questo ruolo, la sora Lella ottiene il suo unico David di Donatello come “miglior attrice non protagonista”.

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