Laurie Anderson, tra Lou Reed, Lolabelle e gli amori fantasma

Cinema
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Giurata a Venezia 2016 e poi a Milano per presentare il suo film Heart of a Dog (versione in italiano curata dalla stessa Anderson) che ha una dedica eterea al suo cane scomparso ma in realtà è un viaggio in fondo all'anima. Abbiamo incontrato e intervistato Laurie Anderson, una delle più grandi artiste dell'ultimo mezzo secolo

di Fabrizio Basso
(@BassoFabrizio)


Un incontro di quelli che lasciano il segno. Laurie Anderson è magnetica. Il suo narrare, la sua voce fioca ma decisa, il suo sguardo lieto contribuiscono a creare un mito nel mito. In Italia come giurata a Venezia 2016, ha fatto poi tappa a Milano, dove la abbiamo incontrata, per presentare il suo film Heart of a Dog, basato su Lolabelle, il suo rat terrier morto nel 2011. E' un saggio personale che intreccia ricordi di infanzia, video diari, riflessioni filosofiche sul concetto buddista della vita dopo la morte, oltre a una serie di tributi agli artisti, a scrittori, musicisti e pensatori che l'hanno ispirata. Tanti i riferimenti a suo marito, Lou Reed, morto il 27 ottobre del 2013.

Signora Anderson l'origine di Heart of a dog?
Una frase, una provocazione dello scrittore David Foster Wallace: ogni storia d'amore è una storia di fantasmi.
La pensa così?
E' il punto di partenza per scavare nel profondo e provare a capire l'empatia che lega due esseri viventi.
Un metodo per esorcizzare i lutti?
Ho scoperto che il lutto non esiste, la morte è la liberazione dell'amore, la vita che viaggia verso un'altra forma.
Perché un film su Lolabelle?
Parto da lì ma non è un film sul mio cane, ma su come si raccontano le storie.
Ci rende partecipi di momenti molto intimi della sua vita.
Ha ragione, parlo della mia infanzia, di concetti la cui comprensione all'epica mi sfuggiva e che sono sempre stati fantasmi sulle mie spalle.
Cosa è cambiato?
Oggi riesco ad affrontarli e raccontarli in maniera diversa.
Un esempio?
Mi ruppi la schiena e rimasi in ospedale per mesi. Ero in un reparto con altri bambini malati. Da qui, nel film, il riferimento a David Foster Wallace.
Il film parla anche del non rapporto con sua madre, della sua New York, di quella ferita che si chiama, e sempre si chiamerà, 11 settembre.
Ma non offro risposte. Il mio film è un rosario di domande. Quanto si ascolta una storia ognuno poi si fa una sua idea. Bisogna trovare la giusta chiave di lettura. A volte la difficoltà sta nella lingua. Io ho studiato italiano e mi sono resa conto di quanto sia difficile, in fase di traduzione, mantenere lo stesso senso del pensiero. Le parole sì, ma le sfumature non hanno traduzione (Laurie Anderson ha tradotto personalmente la versione in italiano della colonna sonora, ndr)
Parlerà mai di suo marito?
Forse. Chissà. Lou mi ha insegnato che tempo e amore sono lo stesso concetto





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