“Fame mia”, uno spettacolo che (non) parla di disturbi alimentari

Smettere di mangiare per Annagaia è la massima espressione del dolore, un dolore che nasce dalla sua profonda fame di vita. Libero adattamento del romanzo Biografia della fame di Amélie Nothomb, lo spettacolo ‘Fame mia – Quasi una biografia’ ne rielabora i passaggi più intensi per fonderli con un’altra storia, quella dell’autrice-attrice che lo interpreta. Portato in scena nel Teatro Biblioteca Quarticciolo di Roma, tornerà il 18 gennaio a Cavarzere, Veneto, e il 18 aprile a Granarolo, Emilia-Romagna. “In questo spettacolo parlo in prima persona e il pubblico non saprà mai quanto ci sia di mio e quanto è di inventato” racconta Annagaia Marchioro. “È un viaggio di crescita di una bambina che diventa ragazzina e poi diventa donna. Il personaggio che interpreto sta cercando di inseguire un suo posto nel mondo, non lo trova. Si trova in difficoltà quindi smette di mangiare”. Comico e poetico, pur mantenendo l’ispirazione e l’ironia tagliente del romanzo, lo spettacolo ne sfoca i contorni, fino a trasformarlo in una storia molto italiana. Siamo a Venezia, nel pieno degli anni ‘80. Nel racconto veneziano e italiano si alternano, passandosi la staffetta linguistica e restituendo l’identità dei personaggi che affollano la memoria della protagonista. Tutta l’Italia si affaccia in questo racconto: un’insegnante pugliese, la migliore amica napoletana. Un’Italia popolare e profondamente religiosa, “fondata sui pranzi della domenica” scomposti, affollati, pettegoli e un po’ ubriachi. Nel racconto il cibo è famiglia, al meglio rappresentata dalla nonna adorata da Annagaia e secondo cui niente può andare storto se si ha di che mangiare. Il cibo però è anche ossessione: Annagaia mangia per orientarsi, per consolarsi, per addormentarsi. Il cibo è anche il filo che percorre la prima metà della storia, fino a invadere la scena in una pioggia di popcorn, preludio del caos che sta per invadere la vita della bambina che si affaccerà presto a una nuova fase della sua esistenza. Lo scontro con l’adolescenza, la fame di un posto nel mondo La protagonista è entusiasta, ingenua e piena di sogni. “L’entusiasmo è una costante dei personaggi che racconto, anche nel prossimo che sto scrivendo, con la regia di Teresa Mannino, l’entusiasmo e la ricerca di una strada nella difficoltà sono caratteristiche ricorrenti e in cui mi identifico”. Ben presto, però. la sindrome di onnipotenza della bimba di 6 anni della prima parte del racconto si scontra con una realtà che non dà risposte, anzi, giudica. Il corpo di Annagaia evolve. A 13 anni, per la prima volta, si sente “brutta”, “inguardabile”. Poi il desiderio di trovare un’amica, il confronto con gli altri, le prime cotte. I confini del mondo sempre conosciuto si sfumano e la protagonista, guardandosi allo specchio, sente per la prima volta “La voce che è la mia ma non è la mia”, una voce impietosa, espressione di incertezza e del dolore di non sapere più qual è il suo posto. La scena diventa il luogo del delitto, un posto fisico e uno spazio della mente, in cui la voglia di vivere si riduce a una piccola, debole luce nel buio in cui cade Annagaia. “Smettere di mangiare è una forma di autolesionismo che però è sempre volto a cercare di superare i limiti. Spero che dallo spettacolo le persone capiscano o si possano identificare. Tutti noi entriamo in momenti di buco nero dove magari ci facciamo delle cose che ci fanno del male. Può essere una storia tossica, una droga, l’alcol, il cibo, è tutto una forma di dolore che esprimiamo facendoci del male. La protagonista però a un certo punto cerca una via d’uscita” racconta Marchioro. “Avere fame di qualcosa che non ci distrugga” La Annagaia adolescente si ammala di anoressia ma sulla scena la malattia è solo agita, mai nominata. Secondo Marchioro, “Il DCA è una possibilità dentro un altro percorso che è la ricerca di se stessi, del proprio posto nel mondo. I disturbi alimentari sono un modo di manifestare il dolore, dietro c’è tanto altro che non vediamo. Il vero tema di questo spettacolo è arrivare ad avere fame di qualcosa che non ci distrugga”. Tra imperfezioni e sbilanciamenti, arriva infatti un lieto fine che conforta: si può guarire. Un inno alla vita che fa fa sentire meno soli, meno spaventati, meno infelici. “Credo sia uno spettacolo dal valore salvifico. Quando ho letto il romanzo di Nothomb, a cui mi sono ispirata, ero già adulta ma ho pensato che mi avrebbe aiutato da ragazza. Sono sicura che chiunque guardi la scena possa trovarci parti di se stesso o se stessa. Tutti combattiamo con il rapporto con il nostro corpo. Noi donne soprattutto combattiamo con l’estetica. Il cibo non è una cosa semplice. Credo sia importante riuscire ad amarsi un po’ di più e io lo faccio nella forma che conosco, che è il teatro”.

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“Fame mia”, uno spettacolo che (non) parla di disturbi alimentari

Federica De Lillis