La poesia di Anna Achmatova diventa un’opera. Silvia Colasanti: “L’arte combatte i regimi”

Una prima mondiale. Un’opera nuova con una storia, e un messaggio, estremamente attuale. Al Teatro alla Scala di Milano è in scena, da oggi fino al 2 dicembre, Anna A. della compositrice Silvia Colasanti, a cui è stata commissionata, su libretto dello scrittore e traduttore Paolo Nori, con la direzione di Anna Skryleva e la regia di Giulia Giammona con scene di Lisa Behensky e costumi di Giada Masi. L’opera, inserita nella programmazione per il pubblico più giovane ma destinata a un pubblico universale, è eseguita da solisti e Orchestra dell’Accademia Teatro alla Scala e ripercorre la vita di una figura di spicco della cultura russa: la poetessa Anna Achmatova . Una vita fatta di arte e, soprattutto, di resistenza all’insensatezza del potere, quello di Stalin. Una storia quanto mai attuale, come sottolinea la stessa compositrice Silvia Colasanti. Come è nata l'idea di creare un’opera ispirata alla vita della poetessa Anna Achmatova? Sono molto appassionata di poesia e di letteratura, russa in particolare. Mi piaceva l’idea di portare in scena i versi e la vita di questa grande voce del Novecento. Così, due anni fa, ho contattato Paolo Nori e ho scoperto, con mia grande sorpresa, che proprio in quel periodo stava scrivendo un libro su Anna Achmatova. Ci è sembrata una coincidenza così felice che abbiamo iniziato subito a lavorarci. Ho scelto di concentrarmi sugli episodi della biografia legati al rapporto tra la sua poesia e la figura del potere. Questo è il tema centrale dell’opera intorno al quale poi ne abbiamo sviluppati altri, come quello della libertà o della maternità. Perché Anna è anche una madre che ha un figlio ingiustamente messo in prigione. E il dolore personale, che emerge dal ciclo di poesie Requiem, è anche quello delle altre madri che, come lei, facevano la fila fuori dal carcere di Leningrado per capire se il proprio figlio fosse ancora vivo o meno. Una sofferenza che è riuscita a trasformare in bellezza attraverso i suoi versi. Anna Achmatova è stata una donna che ha scelto di restare nella sua patria, la Russia, che tanto amava durante un regime. Che ha deciso di combattere la dittatura con la sua arte, la poesia. Qual è il messaggio che arriva oggi? La storia di Anna è una vicenda storica legata a un tempo e a un luogo ma è anche una storia universale e profondamente attuale. Questa storia ci insegna che ci sono tanti artisti, intellettuali, scrittori che amano profondamente la propria patria e la propria cultura e per questo scelgono una strada difficile: non lasciano il loro Paese ma scelgono di restare. E restare non vuol dire essere succubi del regime ma provare a combatterlo attraverso i propri mezzi, la propria arte. Questo è quello che ha fatto Anna Achmatova ed è quello che stanno facendo oggi tanti artisti. Lei ha detto che la vita di Anna è talmente piena che è già teatro. Come avete costruito l’opera da un punto di vista drammaturgico? Ci siamo trovati di fronte alla difficoltà di portare in scena una vita così ricca, anche se avevamo scelto di selezionare gli eventi più legati al rapporto tra arte e potere. Ho pensato così di sdoppiare la figura di Anna e di portare sul palco un’Anna cosiddetta del presente , che non è il nostro presente ovviamente ma è il 1966, il suo ultimo anno di vita, e un’Anna del passato che viene rievocata dalle conversazioni che l’Anna del presente ha con la sua amica, la scrittrice Lidija Čukovskaja , che incontra nel sanatorio di Domoedovo, non lontano da Mosca, dove Anna è ricoverata e dove morirà. Lidija è una figura chiave nella vita di Anna perché è colei che, per eludere i serrati controlli del regime stalinista, aveva imparato a memoria le poesie dell’amica, prima di bruciarle nel posacenere, garantendone una diffusione capillare. È dunque la custode della sua arte. Ed è grazie a Lidija che oggi conosciamo i versi di Anna Achmatova. Dalle loro chiacchierate nel sanatorio riaffiorano i ricordi del passato ma anche quelle figure che hanno fatto parte della vita di Anna, come i suoi mariti. E il potere come è rappresentato nell’opera Anna A.? Nell’opera, accanto ai tanti personaggi storici, c’è una sola figura allegorica che è appunto quella del potere a cui non ho voluto dare un volto. Anna è vissuta sotto due poteri, quello di Lenin e quello di Stalin, ma l'arte deve anche oltrepassare il tempo ed essere universale. Quindi qui abbiamo voluto parlare del potere di tutti i tempi e allo stesso tempo ci siamo ispirati all'episodio del Grande Inquisitore nel romanzo I fratelli Karamazov di Dostoevskij. E cosa ci dice Dostoevskij? Che il potere è lucido, cinico, spietato e sa benissimo che può arrivare laddove l'uomo sente il peso della responsabilità che la libertà comporta. Da un punto di vista invece musicale, c'è una tinta russa? Sì, assolutamente. L'opera è pervasa da una grande tinta russa. E quindi abbiamo una fisarmonica che è dentro l'orchestra, una polka che ci racconta tutte le correnti poetiche dell'inizio del secolo scorso, un violino solo che spesso porta avanti il tema di Anna, un tema molto lirico. Il violino solo è l'altra voce di Anna in orchestra, è un violino che continua a cantare incessantemente, nonostante tutto. E questo tema è tratto dal canto popolare russo ma non in modo citazionistico ma evocativa. Un canto russo che è permeato da intervalli che per noi hanno a che fare con la ferita e con il dolore. In generale non ci sono citazioni musicali in senso stretto ma ci sono delle evocazioni. Come quella, molto evidente, della Settima Sinfonia di Šostakovič. Ho chiesto a Paolo Nori proprio di ricreare l’assedio di Leningrado del 1941. Quando le poesie di Anna erano state diffuse per le strade attraverso gli altoparlanti per incoraggiare il popolo alla resistenza. Questo ci racconta quanto in Russia l’arte sia importante e vicina al popolo. Ci sono artisti che, insieme, combattono un potere: Anna con i suoi versi e Šostakovič con le sue note. Ogni sillaba, ogni parola, ogni suono può essere un’arma. Se dovesse scegliere un verso o un momento particolarmente significativo? C’è un momento in cui, durante l'assedio di Leningrado, si sente la voce di Anna alla radio. Molti dei personaggi, a quel punto dell’opera, sono già morti. Ho chiesto a Paolo Nori di farli in qualche modo risvegliare… perché la voce di Anna è talmente potente da poter esser ascoltata anche da chi ormai non c’è più. Così, alla fine di questa scena, dicono: “Noi siamo ancora vivi perché non uccidiamo, noi cantiamo”. Un’ultima cosa, come è stato lavorare con i giovani artisti dell'Accademia del Teatro alla Scala? Questa è una produzione fatta con le forze dell'Accademia del Teatro alla Scala. Quindi tanta energia, tanto entusiasmo, tanti giovani che hanno partecipato al progetto. L'opera è una cosa che si fa tutti insieme. Dove ognuno ha un valore enorme e tutti concorrono alla riuscita dell'opera consapevoli di quanto tutti siano importanti per riuscire a realizzarla.

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La poesia di Anna Achmatova diventa un’opera. Silvia Colasanti: “L’arte combatte i regimi”

Chiara Ribichini