Livermore: “Ulisse siamo noi. Penelope è molto di più, in guerra le donne vivono l’attesa”

È un ritorno in patria per Davide Livermore, regista tra i più affermati e visionari del nostro tempo. De Il ritorno di Ulisse in patria, capolavoro di Claudio Monteverdi che ha aperto al Teatro Ponchielli di Cremona la 42esima edizione del Festival dedicato al grande compositore, non ha curato infatti solo la regia ma ne è stato anche protagonista vestendo i panni del parassita Iro. Proprio in quel teatro, più di 30 anni fa, aveva iniziato la sua carriera come tenore. Un allestimento, il suo, con richiami cinematografici, come sempre nei suoi lavori, capace di esaltare le fragilità umane degli eroi protagonisti come spiega a Sky Tg24. Sul palco, accanto a lui, il baritono Mauro Borgioni nel ruolo di Ulisse e il contralto Margherita Sala nella parte di Penelope. Sul podio Michele Pasotti alla guida dell’ensemble da lui stesso fondato La Fonte Musica. Il ritorno di Ulisse in patria è un’opera scritta da Claudio Monteverdi nel 1640. Qual è il potere di questa partitura e cosa la rende ancora viva? Ascoltare Monteverdi, leggere Monteverdi, studiare Monteverdi vuol dire entrare in un momento della storia del teatro in cui tutto è nato. Non solo perché in quegli anni a Venezia era stato aperto il primo teatro pubblico ma anche perché Monteverdi componeva opere già dagli inizi del ‘600. Opere come L’Orfeo in cui ha realizzato una sintesi meravigliosa del principio dell’armonia a servizio della poesia. Ciò vuol dire essere capaci di poter sostenere con le armonie quelle che sono le figure retoriche della poesia. Quindi raccontare storie che possano arrivare al cuore di tutti. È qualcosa che ci è stato insegnato da Aristotele ma Monteverdi ha sviluppato gli strumenti comunicativi che si sono poi concretizzati in un’opera, come appunto Il ritorno di Ulisse in patria, in cui troviamo un’esplosione di linguaggio e di colori. Di sfumature che rivelano una parte allo stesso tempo comica ma anche drammatica dei personaggi che sono eroi ma rivelano allo stesso tempo le umane fragilità. A proposito di questo, lei ci ha abituato a regie dal grande impatto visivo che però allo stesso tempo esaltano proprio l'umana fragilità e la psicologia dei personaggi. Da dove è partito per raccontare questo dramma musicale ispirato agli ultimi canti dell'Odissea di Omero? Come prima cosa mi sono chiesto chi è Ulisse. Sono io, è lei, sono le persone a casa. Ulisse creso sia l’essere umano in tutte le sue più alte contraddizioni. Mentre Penelope è molto di più. In un momento come questo è importante parlarne. Perché le donne in una guerra sono quelle che aspettano, sono quelle che soffrono, sono quelle che alla fine vivono una condizione estrema e molto più straziante. Ulisse è colui che vive, che è di fronte alle sue contraddizioni, di fronte al limite e questo limite diventa un'occasione per comprendere ancora di più che la ricerca di un posto, non solo di un luogo fisico ma anche del nostro posto dentro di noi che è quello che ci spinge a vivere. Quindi su questa idea abbiamo deciso di fare una sorta di grande crasi tra tre film che noi non citiamo in modo esplicito ma che sono un ambito dentro il quale abbiamo pescato per costruire la parte visiva: Stromboli di Roberto Rossellini, La terra trema di Luchino Visconti e Mediterraneo di Gabriele Salvatores. In scena raccontiamo un mondo mediterraneo che non è solo il mondo greco o il mondo siciliano ma il Mediterraneo è veramente un grande abbraccio di culture e lo rappresentiamo in un tempo che diventa sì mitico ma che è anche vicino a noi. È un ritorno in patria un po' anche per lei? Sì, è un ritorno nella mia patria, nella città in cui ho cominciato. È qui a Cremona che mi si sono aperte le porte del sapere teatrale. In queste stanze studiavo i madrigali e quando si studia Monteverdi è come se si assumessero gli strumenti per poter poi leggere tutta la storia del teatro. Io nasco come tenore e in quest’occasione torno sul palco in queste vesti perché mi è stato chiesto e perché è anche un modo per celebrare i miei 33 anni di lavoro teatrale. Come cantante, come regista, come scenografo, come coreografo. Ho avuto la fortuna di poter assumere tanti ruoli diversi ma essere un cantante mi ha dato la possibilità di comprendere tanti meccanismi di narrazione. Di capire cosa sente un cantante sulla scena, questo mi dà una sorta di plus che mi permette di poter chiedere anche cose non normali. Per esempio? Per esempio cantare in posizioni non convenzionali da cantante d’opera. Posizioni che magari non sono ideali per arrivare ad acuti meravigliosi ma che portano il cantante a un’interpretazione più profonda del testo. Quando si entra dentro il testo il corpo a volte deve assecondare quelle parole per poter esprimere al meglio tutti i sentimenti e le circostanze: sofferenza, gioia, tradimento, tragedie o commedie che possiamo vivere nella nostra vita. Un cantante ha questa potenzialità straordinaria di dare corpo e voce a tutto questo ma affinché questo accada bisogna aiutarlo. Come? Facendolo uscire da quelle zone di comfort che rende anche i grandi meno artisti. Quindi come regista ho la missione di portare i cantanti fuori dalla loro area di sicurezza. E lo faccio anche io in prima persona in questo caso, nel ruolo del parassita Iro. Cosa resta della hybris di Ulisse e chi sono gli eroi oggi? Io continuo a pensare che non c’è qualcosa che resta e qualcosa no perché Ulisse è l’uomo. E quindi anche la hybris di Ulisse è presente in ognuno di noi, in tutte le persone che hanno voglia di mettersi in cammino e dare un senso alla propria vita, di illuminare quelle che sono le proprie eredità familiari e trovare un posto. Chi ha voglia di risvegliarsi, chi ha voglia di non essere semplicemente gregge, chi ha voglia di sorgere, di sollevare la propria vita da una sorta di potenziale stagno immobile. Ed ecco che allora noi riscopriamo di essere Ulisse.

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