Prima della Scala, Leo Muscato: “In scena una guerra trasversale, dal Settecento a oggi”

Una guerra traversale che attraversa quattro secoli diversi, uno per ogni atto, e arriva fino ai giorni nostri. Una grande ruota al centro della scena che permette di cambiare velocemente ambientazione e di viaggiare dal Settecento a oggi. Un’opera che impone domande importanti, contenuti più alti di quanto si possa immaginare a una prima lettura. Con quel grido di pace, cantato da Leonora tra le macerie, che segna profondamente lo spettatore di oggi, come quello di allora. La chiave di lettura che il regista Leo Muscato ha voluto dare alla Forza del Destino, l’opera di Giuseppe Verdi scelta per inaugurare la stagione del Teatro alla Scala con la direzione di Riccardo Chailly, ruota tutta intorno all’attualità e alla centralità del tema della guerra, come ha spiegato a Sky Tg24. Come è nata l’idea di questa grande ruota che domina il palcoscenico? Sin dall'inizio ci è saltata in mente un'immagine: una ruota che si muovesse in direzione opposta a quella che invece prendono i personaggi sul palcoscenico. È un po’ come andare inesorabilmente incontro a una vita che ti riporta continuamente indietro. Destino, fato. Da un punto di vista pratico e tecnico, questa ruota ci permette anche di portare in scena tanti spazi diversi. A fronte dei 6-7 spazi previsti dal libretto, noi ne realizziamo oltre 40 perché mettiamo lo spettatore nella condizione di essere continuamente sollecitato a immaginare luoghi diversi di questa rappresentazione. Luoghi e secoli diversi… Quando metti in scena uno spettacolo, ci sono tre date da cui non puoi prescindere: una è la data in cui l'opera è ambientata, la seconda è quella in cui tu andrai in scena e la terza è la data in cui l'opera è stata rappresentata per la prima volta. Da qualche parte bisogna spingere il pedale dell'acceleratore, bisogna puntare su una di queste tre date. C'è stato un lungo periodo in cui non riuscivamo di fatto a prendere una strada. Poi, a un certo punto, abbiamo provato a immaginare cosa sarebbe successo se questa storia avesse attraversato i tempi. Ed è la ragione per cui iniziamo nel Settecento e arriviamo ai giorni nostri. È la strada che ci ha portato a poter raccontare questa guerra vista da quattro punti di vista diversi. Quattro modi di fare la guerra, quattro modi di subirla, quattro modi di rimanere vivi al mondo. I costumi rispecchiamo i luoghi e le epoche portate in scena? Con la scenografa Federica Parolini e con la costumista Silvia Aymonino ci siamo detti sin da subito che dovevamo perseguire le intenzioni dell'opera di Verdi, cioè lasciare un’astrazione, non scadere mai in un racconto quotidiano perché il testo ci si sarebbe rivolto contro. Ed è la ragione per cui si parte da una cifra quasi astratta, dove gli abiti del Settecento sono delle forme, dei colori e man mano che ci si avvicina ai giorni nostri queste forme diventano un po' più realistiche. Ed ecco che nell'ultimo atto ci sono le divise militari che vediamo in televisione tutti i giorni o i giubbotti antiproiettili. La caratteristica è che tutti questi costumi, oltre 450, sono fatti di una stessa materia, di un lino grezzo che si presta anche molto ad essere trattato, sporcato e invecchiato. A periodi e secoli diversi corrispondono anche concezioni diverse della guerra? Si parte da una guerra che, nel primo atto, nel Settecento, è soltanto nell'aria. Se ne parla ma ancora non la vediamo. Invece nel secondo atto esplode e c’è tutta l'eccitazione dei giovani che pensano ancora di poter essere determinanti per la nascita di un Paese o per la difesa di alcuni diritti. C'è proprio questo desiderio di immergersi totalmente nella battaglia e condizionarla. Il terzo atto è devastante perché quell’illusione è sparita completamente e assistiamo soltanto ad azioni, a gesti di disperazione, di paura, di fame, di morte, di malattia. L'ultimo atto è ambientato nel mondo contemporaneo, portiamo in scena ciò che purtroppo abbiamo quotidianamente sotto gli occhi. Così, quando si apre il sipario, il pubblico vede solo macerie ed è rimasta la cattiveria, la frustrazione di chi a mani nude va a scavare per cercare di salvare qualcuno. Resta la fame e la sete di chi non può ormai incidere più in niente. E a me commuove sempre moltissimo la scena in cui Leonora esce e, tra le macerie che restano dopo un bombardamento, con un urlo soffocato invoca “Pace mio Dio, pace mio Dio”. Anche la fede è un tema centrale, oltre alla guerra… Sì, questa forza del destino potremmo anche chiamarla la forza della fede perché tutti i personaggi sono profondamente credenti o quantomeno tutti pregano almeno in un momento. E questa fede di Leonora, di Don Alvaro e anche di Don Carlo impedisce loro di mettere in atto quello che realmente vogliono e cioè farla finita. Alvaro, ad esempio, ci prova in tutti i modi, si arruola per una guerra che non è nemmeno la sua e si lancia in gesti eroici, in battaglia, con la speranza di poter incontrare la morte ma lui è probabilmente il migliore dei soldati al mondo e diventa una gloria nazionale, amato e ammirato da tutti quanti. È un testo drammatico, davvero anche profondamente commovente perché a fronte di questi caratteri molto forti la sensazione è che ognuno di loro si porti dentro una fragilità così importante che poi ci riguarda un po' tutti.

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