Esce Tutto sommato, l'autobiografia edita da Rizzoli in cui l'attore e regista incrocia ricordi privati e professionali di una carriera lunga oltre mezzo secolo. A cominciare dalle esperienze di vita e di set col grande Vittorio. L'ESTRATTO
di Gigi Proietti
Gassman, voglio chiamarlo semplicemente Vittorio. Mi manca. Avevo appena cominciato la mia professione, quando lui in un’intervista disse che in Italia c’erano tre giovani attori interessanti: Carmelo Bene, Ernesto Colli (che purtroppo ci ha lasciato prestissimo) e Luigi Proietti.
Quando lessi la dichiarazione ne fui felicissimo, cose di questo genere fanno volare i desideri di un giovane, gli danno fiducia. Lo incrociai per la prima volta sul set del mio primo film, Se permettete parliamo di donne, nel quale facevo una piccola parte. Lo ricordo la mattina al trucco, prestissimo, che leggeva. Tentai di sbirciare il titolo del libro, ma non ci riuscii. Intuii solo che era in francese. «Hai capito questo? E chi sarà mai?» mi chiesi. «Legge di prima mattina, e pure in francese.»
Era una persona piena di vita, adorava le feste. Ne organizzava a migliaia, nei posti più disparati. Una volta ci invitò in aperta campagna, in un luogo che bisognava raggiungere a dorso d’asino. Era un organizzatore nato, meticolosissimo, e la riuscita di una festa lo gratificava più di un successo a teatro. Amava tutti i giochi che si facevano in quelle occasioni, perché gli davano la possibilità di dimostrare tutte le sue doti, prima fra tutte la prestanza fisica.
A volte faceva sdraiare molti amici per terra, uno vicino all’altro, e lui giocava a saltarli tutti. Bisognava stare attenti, perché dopo qualche bicchiere finiva per schiacciare l’ultimo della fila. Stare in sua compagnia era uno spasso, a meno che non fosse al volante. Ho sempre cercato di evitare di salire in macchina con lui alla guida: chi ci andava ne usciva con i capelli dritti. A Napoli, me lo raccontò lui stesso, al ritorno da un party pieno di stelle del cinema, si era formata una colonna di auto con a bordo tutti gli invitati.
Vittorio accelerò spazientito e con la sua Porsche tagliò letteralmente in due una 500. La signora al volante dell’utilitaria era bloccata fra le lamiere e lui si precipitò per rassicurarla e rassicurarsi. Si avvicinò al veicolo per farsi perdonare e constatò che la donna era illesa. «Signora, mi scusi tantissimo, sono desolato, è colpa mia: per il danno non c’è problema, le do subito tutti i miei estremi.» Lei lo guardò incredula: le era apparso Gassman! E lo sbigottimento aumentò quando tutte le grandi star del cinema italiano, che erano rimaste lì in coda, accorsero a sincerarsi della situazione.
C’era Nino Manfredi, la Loren, Alberto Sordi e Claudia Cardinale. La signora avrà pensato: «Sono nell’aldilà e questo è il paradiso. Credevo fosse diverso».
Parlare del talento di Vittorio come attore è inutile. Di lui preferisco ricordare i piccoli dettagli che mi incuriosivano. Per esempio, non aveva un’agenda. Appuntava tutto su dei minuscoli foglietti numerati secondo una logica che capiva solo lui. Era una persona scherzosa, ma sul lavoro gli capitava di isolarsi. Mentre giravamo la Tosca di Magni, un giorno si appartò per mangiare il suo cestino.
Era seduto su uno scalino, ancora vestito da Scarpia, quando gli altri attori gli passarono davanti per chiamarlo. «Vittorio, vieni al ristorante con noi?» «No!» «E perché?» Al che lui rispose, stringendosi il cestino al petto e imitando un tono di voce infantile: «Perché è mio!».
Sul set il cestino è un diritto e, sebbene venisse spesso riempito con delle schifezze, dei panini stantii e della frutta un po’ ammaccata, non vi si rinuncia volentieri.
Aveva il fisico del primo attore e ha recitato da maestro personaggi della grande drammaturgia classica, ma aveva secondo me un’inconfessata voglia di interpretare quelli comici o grotteschi. Anche in quelli era insuperabile.
Non mi va di tentare un’analisi psicologica, non ne sarei capace, so solo che era una personalità molto più complessa di quanto non lasciasse intendere la sua immagine di uomo vincente, dotato fisicamente e colto. Aveva un costante bisogno di amici e per questo si circondava di gente che conosceva anche nei contesti professionali. Faceva il possibile per non interrompere i rapporti coi suoi coetanei, coi vecchi amici di accademia, che infilava spesso nei suoi lavori.
Sognava e vagheggiava: a tal punto voleva avere i suoi amici vicino che gli balenò l’idea di creare una comune. E chiaramente non si limitò alla teoria. Individuò un posto che poteva fare al caso suo e mi ci portò insieme ad altre persone, tra le quali Ugo Pagliai, già fidanzato con la figlia Paola.
Andammo a vedere un enorme appezzamento di terra vicino Sutri, in provincia di Viterbo. C’erano un noccioleto, un bosco e una piccola area edificabile. Gesticolando ci spiegò il progetto che aveva in mente.
«Gigi, lì ti costruisci la casa tu, lì sotto io e lì, secondo me, ne entrano almeno altre quattro.» Poi non se ne fece nulla, come tante cose sognate e abbandonate per strada.
Mi sono goduto Vittorio per un mese intero, nel 1978, in una villa sulle rive del lago Michigan, poco distante dal confine canadese degli Stati Uniti. Quella zona è geograficamente depressa, una pianura che si estende per chilometri e chilometri dando vita a un paesaggio straniante, completamente piatto, senza una collina, una montagna, un bozzo, una salitella.
Può sembrare assurdo, ma nel giro di pochi giorni a me e a Vittorio venne una profonda nostalgia di terreni un po’ più mossi, fossero stati alti anche solo due metri, quindi prendemmo l’abitudine di sgattaiolare via dall’albergo, e in macchina andare in un luna park che stava lì vicino. Appena arrivati, facevamo giri su giri sulla ruota panoramica. Eravamo lì per A wedding, un film diretto da Robert Altman. Non avevamo un copione preciso, ma ci misero in mano l’albero genealogico della famiglia, in maniera tale che avessimo chiari i rapporti tra i personaggi, e ogni sera arrivavano gli sceneggiatori con la parte appena scritta che avremmo dovuto girare il giorno dopo. I testi, però, raramente erano fissi. In una scena, per esempio, io interpretavo la parte del fratello minore di Vittorio che lo raggiungeva dall’Italia per il matrimonio del figlio. Sul copione era indicato soltanto: «Parlano in italiano», quindi Altman ci disse di improvvisare. Era una festa di matrimonio, quindi ogni scena prevedeva la presenza di almeno cinquanta attori sul set. Decisero di girare questo dialogo a due una domenica, probabilmente per risparmiare, e molti degli altri attori chiesero il permesso di poter venire ugualmente a vedere me e Vittorio recitare. Italian actors…
La scuola italiana in America è molto stimata, abbiamo una tradizione riconosciuta a livello mondiale. Molto più che da noi. Io però non ne sapevo nulla e rimasi perplesso. Dissi a Vittorio: «Ma tu sei sicuro? Mi pare strano». «Gigi, contenti loro…» Diedero il ciak e Vittorio, andando a ruota libera, sicuro che poi ci saremmo doppiati, mi disse: «Angelina come sta?». «È incinta» gli risposi senza fare una piega, forte di una certa esperienza da improvvisatore. Lui allora colse la palla al balzo e alzò il tiro: «Sempre a scopa’, eh?», accompagnando la battuta con il classico gesto. Iniziò così un dialogo volgarissimo, nel quale ognuno tentava di far ridere l’altro.
Altman, che non aveva capito una parola, ma che aveva scrutato le intonazioni e i movimenti, decise che la scena era perfetta così com’era venuta e che non c’era neanche bisogno di doppiarla.
Così, nell’edizione originale del film è ancora possibile sentire me e Vittorio cazzeggiare in scena. Altman non era una persona giocosa, era un duro. Era severissimo, maniacale.
Arrivava molto presto la mattina, ancora un po’ gonfio a causa delle libagioni della sera prima, e diceva dove piazzare le due macchine da presa.
La sua fissazione era la parte fonica. È stato il primo che abbia mai visto adoperare i microfoni più piccoli, quelli che si spillano ai vestiti, e usava il modo di dire «I mic you», ovvero «Ti microfono», che oggi è frequente pure dalle nostre parti. Ogni tanto diceva a tutti di non fiatare per una decina di minuti, perché un microfonista doveva registrare l’aria della stanza e del giardino.
Mi scelse per A wedding proprio grazie a questo suo debole per il montaggio sonoro.
L’anno prima, il 1977, era in vacanza a Roma con sua moglie. In quegli stessi giorni io ero stato chiamato a dirigere il doppiaggio di 3 women, un film molto onirico, quasi delirante, grazie al quale Altman aveva vinto la Palma d’Oro a Cannes. Quando venne a sapere che stavamo lavorando sul suo film, chiese di potere assistere a una seduta di doppiaggio. Ci vide all’opera e il risultato gli piacque. Andammo a pranzo insieme per parlarne un po’. Quando mi chiese cosa ne pensavo del film, gli dissi che mi sembrava strano, quasi come fosse un sogno. A sentirmi pronunciare quella frase restò colpito, perché effettivamente aveva sognato l’intero film, l’aveva trascritto in fretta svegliandosi di soprassalto nel bel mezzo della notte. Così disse la moglie.
Nella trattoria in cui pranzammo c’era disegnata una strana grotta azzurra che piacque moltissimo a Robert. Scattò delle fotografie e la fece ricostruire uguale per usarla in una delle scenografie di A wedding.
Dopo quel pranzo, chiamò Vittorio per chiedergli informazioni sul mio conto, e Vittorio, che Dio lo benedica, decise che voleva fidarsi.
Lavorare con Vittorio è stato bellissimo, tutte le volte. Rimpiango soltanto di non aver calcato insieme a lui il palco di un teatro. E dire che, quando l’occasione si è presentata, ci ho rinunciato di proposito. Stava per portare in scena il suo Otello e mi offrì il ruolo di Jago.
Dovete sapere che ogni volta che si recita quest’opera di Shakespeare, fra gli attori che interpretano Otello e Jago si instaura una vera e propria competizione. Non è solo un vezzo da istrioni: quella tensione fra i due personaggi fa proprio parte dell’opera, è scritta nel testo, quindi se uno accetta di interpretare uno di quei due ruoli deve essere anche pronto ad affrontare il duello di recitazione che quella scelta comporta. Non mi sentivo pronto. Un po’ perché non mi credevo adatto, ero ancora nel pieno di A me gli occhi, please e le mie sperimentazioni puntavano in un’altra direzione; un po’ perché non volevo raccogliere il guanto di una sfida che, per me, poteva essere suicida.
«Vittorio, lo sai come funziona ’sta storia fra Jago e Otello» gli dissi. «Se vinci tu me ce rode, se vinco io mi dispiace: mi sa che è meglio che andiamo a cena e restiamo amici.» Non me ne sono mai pentito abbastanza.
Proprietà letteraria riservata © 2013 RCS Libri S.p.A., Milano
Tratto da G. Proietti, Tutto sommato, Rizzoli, pp. 244, euro 19,50
Gassman, voglio chiamarlo semplicemente Vittorio. Mi manca. Avevo appena cominciato la mia professione, quando lui in un’intervista disse che in Italia c’erano tre giovani attori interessanti: Carmelo Bene, Ernesto Colli (che purtroppo ci ha lasciato prestissimo) e Luigi Proietti.
Quando lessi la dichiarazione ne fui felicissimo, cose di questo genere fanno volare i desideri di un giovane, gli danno fiducia. Lo incrociai per la prima volta sul set del mio primo film, Se permettete parliamo di donne, nel quale facevo una piccola parte. Lo ricordo la mattina al trucco, prestissimo, che leggeva. Tentai di sbirciare il titolo del libro, ma non ci riuscii. Intuii solo che era in francese. «Hai capito questo? E chi sarà mai?» mi chiesi. «Legge di prima mattina, e pure in francese.»
Era una persona piena di vita, adorava le feste. Ne organizzava a migliaia, nei posti più disparati. Una volta ci invitò in aperta campagna, in un luogo che bisognava raggiungere a dorso d’asino. Era un organizzatore nato, meticolosissimo, e la riuscita di una festa lo gratificava più di un successo a teatro. Amava tutti i giochi che si facevano in quelle occasioni, perché gli davano la possibilità di dimostrare tutte le sue doti, prima fra tutte la prestanza fisica.
A volte faceva sdraiare molti amici per terra, uno vicino all’altro, e lui giocava a saltarli tutti. Bisognava stare attenti, perché dopo qualche bicchiere finiva per schiacciare l’ultimo della fila. Stare in sua compagnia era uno spasso, a meno che non fosse al volante. Ho sempre cercato di evitare di salire in macchina con lui alla guida: chi ci andava ne usciva con i capelli dritti. A Napoli, me lo raccontò lui stesso, al ritorno da un party pieno di stelle del cinema, si era formata una colonna di auto con a bordo tutti gli invitati.
Vittorio accelerò spazientito e con la sua Porsche tagliò letteralmente in due una 500. La signora al volante dell’utilitaria era bloccata fra le lamiere e lui si precipitò per rassicurarla e rassicurarsi. Si avvicinò al veicolo per farsi perdonare e constatò che la donna era illesa. «Signora, mi scusi tantissimo, sono desolato, è colpa mia: per il danno non c’è problema, le do subito tutti i miei estremi.» Lei lo guardò incredula: le era apparso Gassman! E lo sbigottimento aumentò quando tutte le grandi star del cinema italiano, che erano rimaste lì in coda, accorsero a sincerarsi della situazione.
C’era Nino Manfredi, la Loren, Alberto Sordi e Claudia Cardinale. La signora avrà pensato: «Sono nell’aldilà e questo è il paradiso. Credevo fosse diverso».
Parlare del talento di Vittorio come attore è inutile. Di lui preferisco ricordare i piccoli dettagli che mi incuriosivano. Per esempio, non aveva un’agenda. Appuntava tutto su dei minuscoli foglietti numerati secondo una logica che capiva solo lui. Era una persona scherzosa, ma sul lavoro gli capitava di isolarsi. Mentre giravamo la Tosca di Magni, un giorno si appartò per mangiare il suo cestino.
Era seduto su uno scalino, ancora vestito da Scarpia, quando gli altri attori gli passarono davanti per chiamarlo. «Vittorio, vieni al ristorante con noi?» «No!» «E perché?» Al che lui rispose, stringendosi il cestino al petto e imitando un tono di voce infantile: «Perché è mio!».
Sul set il cestino è un diritto e, sebbene venisse spesso riempito con delle schifezze, dei panini stantii e della frutta un po’ ammaccata, non vi si rinuncia volentieri.
Aveva il fisico del primo attore e ha recitato da maestro personaggi della grande drammaturgia classica, ma aveva secondo me un’inconfessata voglia di interpretare quelli comici o grotteschi. Anche in quelli era insuperabile.
Non mi va di tentare un’analisi psicologica, non ne sarei capace, so solo che era una personalità molto più complessa di quanto non lasciasse intendere la sua immagine di uomo vincente, dotato fisicamente e colto. Aveva un costante bisogno di amici e per questo si circondava di gente che conosceva anche nei contesti professionali. Faceva il possibile per non interrompere i rapporti coi suoi coetanei, coi vecchi amici di accademia, che infilava spesso nei suoi lavori.
Sognava e vagheggiava: a tal punto voleva avere i suoi amici vicino che gli balenò l’idea di creare una comune. E chiaramente non si limitò alla teoria. Individuò un posto che poteva fare al caso suo e mi ci portò insieme ad altre persone, tra le quali Ugo Pagliai, già fidanzato con la figlia Paola.
Andammo a vedere un enorme appezzamento di terra vicino Sutri, in provincia di Viterbo. C’erano un noccioleto, un bosco e una piccola area edificabile. Gesticolando ci spiegò il progetto che aveva in mente.
«Gigi, lì ti costruisci la casa tu, lì sotto io e lì, secondo me, ne entrano almeno altre quattro.» Poi non se ne fece nulla, come tante cose sognate e abbandonate per strada.
Mi sono goduto Vittorio per un mese intero, nel 1978, in una villa sulle rive del lago Michigan, poco distante dal confine canadese degli Stati Uniti. Quella zona è geograficamente depressa, una pianura che si estende per chilometri e chilometri dando vita a un paesaggio straniante, completamente piatto, senza una collina, una montagna, un bozzo, una salitella.
Può sembrare assurdo, ma nel giro di pochi giorni a me e a Vittorio venne una profonda nostalgia di terreni un po’ più mossi, fossero stati alti anche solo due metri, quindi prendemmo l’abitudine di sgattaiolare via dall’albergo, e in macchina andare in un luna park che stava lì vicino. Appena arrivati, facevamo giri su giri sulla ruota panoramica. Eravamo lì per A wedding, un film diretto da Robert Altman. Non avevamo un copione preciso, ma ci misero in mano l’albero genealogico della famiglia, in maniera tale che avessimo chiari i rapporti tra i personaggi, e ogni sera arrivavano gli sceneggiatori con la parte appena scritta che avremmo dovuto girare il giorno dopo. I testi, però, raramente erano fissi. In una scena, per esempio, io interpretavo la parte del fratello minore di Vittorio che lo raggiungeva dall’Italia per il matrimonio del figlio. Sul copione era indicato soltanto: «Parlano in italiano», quindi Altman ci disse di improvvisare. Era una festa di matrimonio, quindi ogni scena prevedeva la presenza di almeno cinquanta attori sul set. Decisero di girare questo dialogo a due una domenica, probabilmente per risparmiare, e molti degli altri attori chiesero il permesso di poter venire ugualmente a vedere me e Vittorio recitare. Italian actors…
La scuola italiana in America è molto stimata, abbiamo una tradizione riconosciuta a livello mondiale. Molto più che da noi. Io però non ne sapevo nulla e rimasi perplesso. Dissi a Vittorio: «Ma tu sei sicuro? Mi pare strano». «Gigi, contenti loro…» Diedero il ciak e Vittorio, andando a ruota libera, sicuro che poi ci saremmo doppiati, mi disse: «Angelina come sta?». «È incinta» gli risposi senza fare una piega, forte di una certa esperienza da improvvisatore. Lui allora colse la palla al balzo e alzò il tiro: «Sempre a scopa’, eh?», accompagnando la battuta con il classico gesto. Iniziò così un dialogo volgarissimo, nel quale ognuno tentava di far ridere l’altro.
Altman, che non aveva capito una parola, ma che aveva scrutato le intonazioni e i movimenti, decise che la scena era perfetta così com’era venuta e che non c’era neanche bisogno di doppiarla.
Così, nell’edizione originale del film è ancora possibile sentire me e Vittorio cazzeggiare in scena. Altman non era una persona giocosa, era un duro. Era severissimo, maniacale.
Arrivava molto presto la mattina, ancora un po’ gonfio a causa delle libagioni della sera prima, e diceva dove piazzare le due macchine da presa.
La sua fissazione era la parte fonica. È stato il primo che abbia mai visto adoperare i microfoni più piccoli, quelli che si spillano ai vestiti, e usava il modo di dire «I mic you», ovvero «Ti microfono», che oggi è frequente pure dalle nostre parti. Ogni tanto diceva a tutti di non fiatare per una decina di minuti, perché un microfonista doveva registrare l’aria della stanza e del giardino.
Mi scelse per A wedding proprio grazie a questo suo debole per il montaggio sonoro.
L’anno prima, il 1977, era in vacanza a Roma con sua moglie. In quegli stessi giorni io ero stato chiamato a dirigere il doppiaggio di 3 women, un film molto onirico, quasi delirante, grazie al quale Altman aveva vinto la Palma d’Oro a Cannes. Quando venne a sapere che stavamo lavorando sul suo film, chiese di potere assistere a una seduta di doppiaggio. Ci vide all’opera e il risultato gli piacque. Andammo a pranzo insieme per parlarne un po’. Quando mi chiese cosa ne pensavo del film, gli dissi che mi sembrava strano, quasi come fosse un sogno. A sentirmi pronunciare quella frase restò colpito, perché effettivamente aveva sognato l’intero film, l’aveva trascritto in fretta svegliandosi di soprassalto nel bel mezzo della notte. Così disse la moglie.
Nella trattoria in cui pranzammo c’era disegnata una strana grotta azzurra che piacque moltissimo a Robert. Scattò delle fotografie e la fece ricostruire uguale per usarla in una delle scenografie di A wedding.
Dopo quel pranzo, chiamò Vittorio per chiedergli informazioni sul mio conto, e Vittorio, che Dio lo benedica, decise che voleva fidarsi.
Lavorare con Vittorio è stato bellissimo, tutte le volte. Rimpiango soltanto di non aver calcato insieme a lui il palco di un teatro. E dire che, quando l’occasione si è presentata, ci ho rinunciato di proposito. Stava per portare in scena il suo Otello e mi offrì il ruolo di Jago.
Dovete sapere che ogni volta che si recita quest’opera di Shakespeare, fra gli attori che interpretano Otello e Jago si instaura una vera e propria competizione. Non è solo un vezzo da istrioni: quella tensione fra i due personaggi fa proprio parte dell’opera, è scritta nel testo, quindi se uno accetta di interpretare uno di quei due ruoli deve essere anche pronto ad affrontare il duello di recitazione che quella scelta comporta. Non mi sentivo pronto. Un po’ perché non mi credevo adatto, ero ancora nel pieno di A me gli occhi, please e le mie sperimentazioni puntavano in un’altra direzione; un po’ perché non volevo raccogliere il guanto di una sfida che, per me, poteva essere suicida.
«Vittorio, lo sai come funziona ’sta storia fra Jago e Otello» gli dissi. «Se vinci tu me ce rode, se vinco io mi dispiace: mi sa che è meglio che andiamo a cena e restiamo amici.» Non me ne sono mai pentito abbastanza.
Proprietà letteraria riservata © 2013 RCS Libri S.p.A., Milano
Tratto da G. Proietti, Tutto sommato, Rizzoli, pp. 244, euro 19,50