Bruce Springsteen racconta per la prima volta, in un’intervista al New Yorker, il suo lato oscuro e quanto abbia sofferto negli anni ’80 dopo essere stato travolto dal successo: “A un certo punto ero dominato dal terrore puro e disgustato da me stesso”
Dietro le travolgenti e scatenate performance dal vivo di Bruce Springsteen, capace di cantare e suonare anche per 3-4 ore di seguito senza la minima pausa, si nasconde il lato oscuro di The Boss: è infatti la reazione, a base di adrenalina, alla depressione nella quale sprofondò in passato, sopraffatto da un successo che sentiva troppo grande, troppo impegnativo per le sue forze, e dai ricordi molesti del difficile rapporto vissuto con il padre. E' la stessa rockstar americana, le cui radici affondano per metà nella Penisola Sorrentina, a confessarlo in un'intervista rilasciata al settimanale The New Yorker.
"A un certo punto ero dominato dal terrore puro", racconta il musicista, "dal disgusto di me stesso, dall'avversione nei miei confronti. I miei problemi non erano così evidenti come per esempio le droghe", prosegue il 62enne cantautore. "I miei erano differenti, più sommessi".
Al periodico Dave Marsh, biografo ufficiale di Springsteen e suo intimo amico, spiega che l'ingresso vero e proprio nel tunnel risale al 1982: un periodo delicato nel quale Springsteen, impreparato ad affrontare l'acclamazione planetaria piombatagli addosso dopo anni di gavetta ancora fresca nella memoria, si sentì addirittura tentato dall'idea del suicidio. Era reduce dal riuscito azzardo di The River, il primo album doppio della sua carriera, uscito nel 1980. Poteva fare quello che voleva, il punto era che non lo sapeva neppure lui.
Bruce Springsteen, The River
Infatti il disco successivo, Nebraska, ebbe una gestazione tormentata. Dapprima lo registrò da solo, in privato, accompagnando la propria voce con la sola chitarra acustica, o quasi. Poi però volle rifare il tutto in studio con la E Street Band, lo storico gruppo che da sempre lo accompagna, e nemmeno così il risultato gli piacque. Alla fine decise di tornare all'idea originaria, e fu sulla base di quella che realizzò un'opera anomala, tesa ma straniata, diversa da tutte le precedenti, e anche dalla maggior parte di quelle successive.
"Era come se stesse cavalcando un razzo", chiarisce al periodico newyorchese ancora Marsh. "Dal niente assoluto passi a ottenere qualcosa, e alla fine arriva il momento in cui ti adorano tutti, dal mattino alla sera. Così ti può ben capitare che cominci ad avere qualche conflitto interiore a proposito della tua reale auto-stima". Springsteen non esitò tuttavia a percorrere la spesso ardua strada dall'analisi, e si affidò alle cure di uno psicologo. Funzionò: due anni più tardi, richiamata accanto a sé la band, tirò fuori dal cilindro Born in the U.S.A. Forse non la sua produzione stilisticamente migliore, ma di certo quella che ha goduto delle maggiori fortune commerciali. E per nulla depressa.
Bruce Springsteen, Born in the U.S.A.
"A un certo punto ero dominato dal terrore puro", racconta il musicista, "dal disgusto di me stesso, dall'avversione nei miei confronti. I miei problemi non erano così evidenti come per esempio le droghe", prosegue il 62enne cantautore. "I miei erano differenti, più sommessi".
Al periodico Dave Marsh, biografo ufficiale di Springsteen e suo intimo amico, spiega che l'ingresso vero e proprio nel tunnel risale al 1982: un periodo delicato nel quale Springsteen, impreparato ad affrontare l'acclamazione planetaria piombatagli addosso dopo anni di gavetta ancora fresca nella memoria, si sentì addirittura tentato dall'idea del suicidio. Era reduce dal riuscito azzardo di The River, il primo album doppio della sua carriera, uscito nel 1980. Poteva fare quello che voleva, il punto era che non lo sapeva neppure lui.
Bruce Springsteen, The River
Infatti il disco successivo, Nebraska, ebbe una gestazione tormentata. Dapprima lo registrò da solo, in privato, accompagnando la propria voce con la sola chitarra acustica, o quasi. Poi però volle rifare il tutto in studio con la E Street Band, lo storico gruppo che da sempre lo accompagna, e nemmeno così il risultato gli piacque. Alla fine decise di tornare all'idea originaria, e fu sulla base di quella che realizzò un'opera anomala, tesa ma straniata, diversa da tutte le precedenti, e anche dalla maggior parte di quelle successive.
"Era come se stesse cavalcando un razzo", chiarisce al periodico newyorchese ancora Marsh. "Dal niente assoluto passi a ottenere qualcosa, e alla fine arriva il momento in cui ti adorano tutti, dal mattino alla sera. Così ti può ben capitare che cominci ad avere qualche conflitto interiore a proposito della tua reale auto-stima". Springsteen non esitò tuttavia a percorrere la spesso ardua strada dall'analisi, e si affidò alle cure di uno psicologo. Funzionò: due anni più tardi, richiamata accanto a sé la band, tirò fuori dal cilindro Born in the U.S.A. Forse non la sua produzione stilisticamente migliore, ma di certo quella che ha goduto delle maggiori fortune commerciali. E per nulla depressa.
Bruce Springsteen, Born in the U.S.A.