Quando Finardi era solo un capellone

Spettacolo
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In "Spostare l'orizzonte" (Rizzoli), scritto insieme ad Antonio D'Errico, il cantautore italiano racconta la sua vita e la sua carriera musicale. A cominciare dagli esordi nella Milano degli anni '70. Leggi un estratto dell'autobiografia

di Eugenio Finardi e Antonio G. D'Errico

«Eravamo un gruppo di ragazzi che faceva musica» esordisce così, Eugenio, raccontando delle sue prime esperienze musicali nella band della scuola americana che frequentava a Milano.
«Eravamo i capelloni della scuola, con tutta la serie di problemi che comportava il nostro modo di essere: i genitori degli altri ragazzi si lamentavano perché avremmo potuto essere un seme infestante» ironizza, «un esempio di perdizione senza speranza di recupero, un’ondata di corruzione per l’animo delicato dei loro figli.»
Si scuote leggermente, facendo scemare il piacere dell’ironia. «Il preside ci chiamò, me e gli altri tre capelloni dell’istituto, e ci disse: “So che voi quattro suonate uno strumento musicale. Allora formate una band scolastica”. E noi, con l’aria un po’ indispettita, un po’ per il gusto della provocazione: “Ma no, non vogliamo suonare in banda”. “No, no, una rock band!” ribatté lui, seriamente, facendoci capire che non avevamo scelta: “La scuola comprerà l’impianto voci e voi d’ora in poi farete ballare i vostri compagni durante il ballo del venerdì sera. Non ci saranno più dischi, dunque farete voi musica dal vivo”.»

S’interrompe, e spiega: «Nelle scuole americane ogni venerdì si ballava nella palestra. Era anche un modo per tenerci all’interno, tranquilli, senza che nessuno andasse in giro a far casino in discoteca».
Riprende col racconto: «Il preside ci disse che avremmo dovuto iniziare a suonare già dal secondo venerdì successivo a quell’incontro. Ci venne un colpo, perché significava restare a scuola tutti i giorni per le prove, dopo che finiva di giocare la squadra di pallacanestro. La mattina e il pomeriggio la palestra era riservata alle attività didattiche e di preparazione atletica, quindi iniziavamo a provare all’incirca verso le otto di sera e finivamo alle dieci. Per la gioia del custode, che se avesse potuto ci avrebbe fatto fuori» sorride, poi puntualizza: «Visto che dovevamo rimanere lì, facevamo i compiti, e passavamo praticamente le nostre giornate sempre tra le mura scolastiche. Sembrava quasi che fosse stato ordito uno stratagemma per imbrigliare i ribelli capelloni e tenerli sotto sorveglianza» si gira.
«Noi ci divertivamo, veramente! Poi era un modo per mettere a tacere le voci di chi ci aveva guardato sempre con sospetto. Forse non riuscimmo del tutto nell’intento perché qualcuno si sentì ancor più infastidito dal nostro esserci conquistati il ruolo di musicisti... Io avevo preso lezioni di pianoforte già da piccolo, in verità. Non pensavo che avrei mai fatto il pianista, allora, ma neanche immaginavo di potermi dedicare ad altro che non fosse la musica e lì, senza rendermene conto, ho imparato il mio mestiere.»

«Perché non hai avuto la tentazione di intraprendere la carriera classica visto che in casa tua vigeva un rigore musicale proprio di impronta classica?» «Io penso di non avere mai avuto le caratteristiche per poter affrontare in tutte le sue sfumature un componimento classico... Ero troppo indisciplinato per rimanere dentro quei canoni rigorosi, che richiedono appunto un’altra struttura mentale prima che artistica» fa un piccolo cenno d’interruzione, come a voler dare spazio a una verità, a un’ispirazione.
«La musica, allora, era per me un’espressione di libertà, era condivisione di sentimenti, di rivendicazioni. Non era godimento personale, ricerca di un piacere astratto. La mia musica era il blues, con tutte le sue implicazioni, era la musica dei neri, da Harry Belafonte a Lena Horne, da Robert Johnson a Miles Davis... Le loro canzoni ogni tanto arrivavano in Italia, si ascoltavano anche a casa mia: non c’era solo l’opera. In realtà» precisa, «la mia vera scoperta del blues è avvenuta quando, nel ’65, ho visto per la prima volta i Rolling Stones in tivù, a tredici anni, a casa di mia nonna in New Jersey.
Ho avvertito in quella carica rabbiosa e forte l’evoluzione propria della musica blues, che trovava un’origine nella rivolta e nella ribellione... Poi loro, così plateali, così teatrali, sono stati per me uno spettacolo sconvolgente» sembra ritrovare il piacere di quella emozione.

Poi torna ai suoi esordi: «Con quella prima band scolastica abbiamo fatto musica per un po’ di tempo. Intanto ho conosciuto Alberto Camerini e Roberto Colombo, che frequentavano il liceo Beccaria, vicinissimo a casa mia. Ma anche altri, come Pepè Gagliardi, un hammondista di notevole bravura. Roberto Colombo è poi diventato uno dei più grandi produttori di musica italiani – è il marito di Antonella Ruggiero –, ha prodotto dischi di straordinaria bellezza, tra cui Vacanze romane... È capitato che frequentandosi tra musicisti di band scolastiche siano nati nuovi gruppi. Il Beccaria aveva già la sua resident band, erano gli Stormy Six, con le loro chitarre bianche, ancora ai loro esordi, prima che si politicizzassero. Io e Camerini ci siamo riconosciuti perché accomunati da alcune affinità: lui era tornato dal Brasile con la sua famiglia, metà italiano e metà brasiliano, in un certo senso, diviso tra due mondi come me; era un musicista, parlava perfettamente l’inglese, portava i capelli lunghi... Insomma ci siamo trovati e abbiamo deciso di formare la nostra blues band. Insieme a noi c’erano un bassista, Alberto Tenconi, e un batterista, Alessandro Vitale. Il nostro repertorio si basava fondamentalmente sui Rolling Stones. Proprio coi loro pezzi abbiamo vinto il festival delle band scolastiche al Bang Bang, un locale di allora, in rappresentanza della scuola americana, perché il Beccaria era rappresentato dagli Stormy Six.»
Sospira, Eugenio, come mosso dalla piacevolezza di quei ricordi, davvero lontani nel tempo. «Erano proprio i primi passi di un gruppo di ragazzi nel mondo della musica.» «In che anni siamo?»

«Siamo nel 1970, avevo diciott’anni. L’anno dopo avrei dovuto fare, com’era previsto, la mia scelta universitaria, che però non ho fatto, perché mi sono preso un anno sabbatico, un periodo di riflessione, durante il quale mi sono cimentato con l’insegnamento della lingua inglese ai dirigenti di una multinazionale con sede a Milano» sorride.
«Avevo una giacca orrenda, tutto tirato a lucido. Mi ero messo perfino il parrucchino per coprire i capelli lunghi... Hanno pensato che facessi la chemioterapia» si lascia andare a una sonora risata istintiva.
«La sera invece suonavo in un locale, con Marino Marini, un musicista straordinario che veniva dal repertorio swing e dal jazz.» «L’esperienza del gruppo con Camerini è durata solamente un anno?» «Sì, in pratica con l’inizio dell’università sono cambiati gli assetti. Alcuni si sono allontanati, altri sono subentrati. Alberto ha deciso di far posto come cantante alla sua ragazza di allora, Donatella Bardi, e come chitarrista al fratello di lei, Lucio, l’attuale chitarrista di De Gregori.» «Ti sei trovato a dover fare altre scelte a quel punto?»
«No, mi sono adattato alle scelte degli altri... Ai tempi, Milano era straordinaria, una città bellissima. In Galleria del Corso, dalla parte dove adesso sono le Messaggerie Musicali, c’era un portone che dava accesso a un numero di piani, forse sette o otto, con dei piccoli appartamentini al cui interno si trovavano un pianista, chino sul pianoforte, e un paroliere che trascorrevano il loro tempo a scrivere canzoni. C’era anche un bagno, all’occorrenza, e un’altra stanza per un po’ di relax. Ognuno si era dato un nome, del tipo: Edizioni musicali Margherita, che so, Edizioni musicali Carosello, che tra l’altro esistevano sul serio... C’erano compositori eccelsi come Carlo Alberto Rossi, che aveva scritto Le mille bolle blu, e tanti altri. E sotto c’era un bar, dove si andava in cerca di coristi o musicisti: indicavano lo stile, le competenze, con richieste del tipo: “Cercasi batterista di liscio”, oppure “Per apertura di un nuovo locale in Romagna si cerca per orchestra di moderno un quartetto rock con due chitarre”... Uno andava lì e sentiva un po’ che genere di richieste arrivavano, poi c’era un certo Berlendis, un convocatore, che chiamava per fare i cori nei dischi, in sala d’incisione. Sono entrato proprio grazie a lui nel giro dei coristi, insieme a Marco Ferradini e Paki, del duo Paki & Paki, che poi entrerà a far parte dei Nuovi Angeli. Noi eravamo i “3 + 3” di Paola Orlandi, non i “4 + 4” di Nora Orlandi, che era la sorella. Mentre loro andavano a cantare in televisione e a Sanremo, noi facevamo i dischi a Milano; eravamo noi tre più le ragazze: Lalla, Lella e Giusi. In un pomeriggio registravamo per una casa discografica un intero gruppo di canzoni che dovevano andare al Cantagiro o a Sanremo. Abbiamo fatto, per esempio, il coro di Montagne verdi di Marcella. Ovviamente siamo già andati oltre nel tempo, rispetto all’inizio. Qui siamo già nel ’72.»

«Come ti sentivi in questo ruolo di cantante di secondo piano?» «Cercavo di entrare nel mondo della musica, per me era normale. Come ti dicevo, i musicisti si incontravano in Galleria del Corso, si andava lì, c’era lavoro e si cominciava così. Io sono stato assunto da Marino Marini, imbrogliando per giunta, molto all’italiana. Avevo i capelli lunghi, bella presenza, una chitarra Gibson stratosferica, uguale a quella degli AC/DC... Convocano un’orchestra di leggera per accompagnare nelle sale da ballo Marino Marini e una sua scoperta, Niki, una ragazza di grande talento. Io faccio il provino insieme all’orchestra su un pezzo che ci indica Marini stesso; dice: “Suoniamo La ragazza di Ipanema”. Dio santo, c’erano degli accordi che per me erano impossibili! Io venivo dal rock, la mia formazione era basata sui licks» mima con la voce, facendo un giro di toni alti e bassi, grattando in gola, scattando, muovendo le dita delle mani.
«Allora, cosa ho fatto? Ho attaccato la chitarra all’amplificatore, ho abbassato il volume e ho fatto finta. Alla fine dell’esecuzione Marino Marini si è complimentato con me: “Bravo! Sei un capellone, hai la chitarra giusta, però sei il primo che non ci scassa la testa con quello strumento elettrico infernale! Sei assunto”. Poi cantavo abbastanza bene da poter subentrare quando lui aveva un cedimento nella voce. Gli piaceva anche il mio modo di cantare “anticipato”, un po’ swing, che spezzava il ritmo melenso delle melodie in voga all’epoca. E quindi mi sono trovato a fare il mio primo lavoro serale come musicista in un dancing, l’Arizona, che prima era in Porta Venezia mentre adesso si è spostato vicino a piazzale Loreto. Si ballava con tutti i crismi della cavalleria.»

Si arresta un istante, per concedersi una stravaganza, un momento di divertimento: «“Scüsi signorina, la bala?” “No, bali no!” “E perché l’è venüda chi?” “E no, non bali... Perché se bali südi e se südi spüsi”». Resto a pensare, rido dopo un attimo. Eugenio sorride, rilassandosi nel respiro: «Ah, poi» riprende, recuperando l’espressione seria, «il sassofonista di quella formazione era Claudio Pascoli».
«Pronipote di Giovanni» dico con la stessa aria di leggerezza. «No, manco per sogno!» ribatte stando al gioco. Claudio Pascoli è diventato poi il sassofonista di De André e di altri, ha collaborato con Battisti, con Fossati... Pensa che sono andato da Fazio, per la serata in onore di Fabrizio, e più della metà dei musicisti di De André ospiti della trasmissione avevano iniziato con me. Ho cercato di ricordare chi fosse quello che avevo conosciuto per primo ed era proprio Claudio, con cui avevo suonato quarant’anni esatti prima» afferma, con aria di improvviso stupore. «Poi, però, nel ’71, dopo questa esperienza con Marino Marini, sono andato in America per frequentare l’università, e seguire in un certo senso quello che sarebbe dovuto essere il mio destino. Da allora la mia vita avrebbe trovato sviluppo e volontà negli States, così pensavo quando presi la decisione di trasferirmi a Boston per studiare teatro. Mi sono ritrovato in questo college universitario, la Tufts University, e per la prima volta ho provato un profondo senso di solitudine, come non mi era mai capitato prima in tutta la mia vita. È stata una sensazione traumatica, ed è stato proprio allora che mi sono reso conto di non essere americano, in realtà... Non mi piaceva il loro modo di essere, non mi piacevano le donne americane, il loro sentire rispetto a certi temi sociali, le loro chiusure riguardo all’idea del socialismo. Eravamo negli anni Settanta: che cosa era avvenuto di nuovo nell’ultimo secolo, dal 1870? L’unica vera novità era la concezione di un’altra idea di società, di giustizia e di equità sociale: in altre parole l’idea di una nuova uguaglianza tra gli uomini, in virtù della quale nessuno aspirasse a prevalere sull’altro. Un’autentica politica sociale, in America, non c’è ancora adesso.
©2010 RCS Libri, S.p.A., Milano

Tratto da Eugenio Finardi, Antonio G.D'Errico, Spostare l'Orizzonte, Rizzoli, pp.236, euro 18

Eugenio Finardi è uno dei maggiori cantautori italiani. Esordisce nel 1973 con il 45 giri Spacey Stacey ma il successo arriva nel 1976 con le sue canzoni più famose, La radio e Musica Ribelle. Questo è il suo primo libro.

Antonio G. D’Errico
, scrittore e sceneggiatore, ha scritto numerosi saggi e romanzi, tra cui Il Discepolo (2008). Ha vinto il Premio Cesare Pavese per la narrativa, con il romanzo Montalto. Fino all’ultimo respiro, ispirato all’agente di polizia penitenziaria vittima della violenza mafiosa.

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