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Stephen Hawking, la teoria dei buchi neri

Scienze

Gabriele De Palma

Getty Images

Se oggi sappiamo qualcosa di più sui buchi neri è merito delle ricerche dell'astrofisico inglese e della sua impareggiabile capacità divulgativa (La prima immagine di un buco nero. FOTO)

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Se l'impalcatura teorica che ci ha spinto a ipotizzare e a cercare i buchi neri è quella della relatività generale di Einstein, è sicuramente al lavoro realizzato negli ultimi cinquant'anni dal fisico britannico Stephen Hawking che dobbiamo il merito di aver approfondito la nostra conoscenza di questi particolarissimi corpi celesti, grazie a una capacità di divulgazione unica e seconda solo alla sua capacità di ricerca. Anche perché, a differenza che per il fisico tedesco, per l'inglese i buchi neri sono stati il centro della propria ricerca, cui Hawking ha dedicato quasi tutti i suoi studi, dividendo la sua attenzione solo con un altro grande argomento di astrofisica, il Big Bang.

Il colpo di fulmine

A metà degli anni sessante Hawking si iscrisse alla facoltà di cosmologia di Cambridge (dopo essersi laureato in fisica a Oxford) proprio mentre il dibattito sui buchi neri veniva rivitalizzato da alcuni scienziati tra cui il suo compagno a Cambridge, Roger Penrose, lo statunitense John Wheeler, che attribuì anche il nome 'buco nero' al fenomeno, e il sovietico Yakov Zeldovic. Hawking rimase folgorato e iniziò a studiare alacremente.

Singolarità abbastanza frequenti

Le teorie sui buchi neri, quando Hawking iniziò a interessarsene, prevedevano che una stella sufficientemente grande (più grande del Sole, che non può diventare buco nero) può collassare su se stessa e generare prima una stella di neutroni e successivamente diventare un punto a densità infinita. Il punto a densità infinita ha una forza gravitazionale che modifica lo spazio circostante a tal punto da non permettere a nulla che si trovi sul suo confine di allontanarsi. Il punto attrae irrimediabilmente tutto quello che tange i propri confini, luce compresa. Il primo importante contributo che il giovane astrofisico diede alla ricerca sui buchi neri fu il teorema che confermava matematicamente l'ipotesi della singolarità gravitazionale. Non solo, perfezionò anche il teorema dell'essenzialità in base al quale il buco nero ha solo tre proprietà: la massa, la rotazione (il momento angolare) e la carica elettrica. Tutte le altre informazioni (ad esempio l'energia delle particelle di cui è composto) si perdono attraversandone i confini, e cioè passando oltre quel che viene definito l'orizzonte degli eventi.
La dimostrazione della singolarità lo condusse a concludere che queste non erano solo ipotesi matematiche o fenomeni unici, ma dovevano essercene moltissime nell'universo. E su questo il futuro gli ha dato pienamente ragione. Oggi è ritenuto unanimemente dalla comunità scientifica che all'interno di molte galassie, e secondo alcuni di tutte, ci sia almeno un buco nero di dimensioni gigantesche.

Oscurità apparente

L'altro enorme contributo in termini di ricerca che ha dato Hawking allo studio dei buchi neri è l'ipotesi che non siano poi così neri, né così impermeabili. In realtà qualche particella viene emanata. Si tratta delle radiazioni di Hawking. Utilizzando i principi della fisica quantistica, e precisamente la teoria delle fluttuazioni quantistiche che prevede che ci siano dei mutamenti temporanei di energia nello spazio vuoto, Hawking ipotizza che una coppia di particella e antiparticella (che devono sempre avere direzione, carica e velocità opposte) si materializzi in prossimità dell'orizzonte degli eventi. Una delle due, prima o poi, avrà direzione che tende direttamente verso il centro del buco nero, l'altra andrà invece in direzione contraria. Particella e antiparticella normalmente si annullano nel giro di pochissimo tempo (miliardesimi di secondo), ma se l'antiparticella è finita riassorbita nel buco nero, la particella viaggia in direzione opposta, riesce a sfuggire e in qualche modo emana dal buco nero.
Le radiazioni Hawking, condussero anche l'astrofisico a concludere che il buco nero ha un ciclo di vita, che non è l'ultimo stadio del corpo celeste. Molto lentamente, a forza di perdere particelle, il buco nero evapora. La lentezza di questo fenomeno è difficilmente comprensibile, per avere un'idea oggi gli scienziati stanno cercando i segni dell'evaporazione dei primi piccolissimi buchi neri formatisi presumibilmente subito dopo il Big Bang. Ci dovrebbero aver messo quasi 14 miliardi di anni per evaporare.

Divulgazione

Oltre ai contributi fondamentali dati da Hawking all'astrofisica degli ultimi cinquant'anni, è la sua attività di divulgatore ad aver lasciato il segno anche tra i non addetti ai lavori. Il suo testo del 1989, Dal big bang ai buchi neri - Breve storia del tempo, ha portato l'astrofisica sul comodino di tanti profani che per la prima volta cercavano di avvicinarsi alle teorie sull'universo e comprenderne i misteri. Il libro ha venduto più di dieci milioni di copie ed è stato tradotto in trentacinque lingue. Hawking ha continuato a pubblicare testi divulgativi e a portare avanti la sua ricerca fino all'ultimo giorno di vita. Molte delle cose che ha ipotizzato sui buchi neri devono essere confermate, alcune spiegazioni verranno probabilmente confutate in futuro, ma nessuno più di Hawking ha indagato l'esistenza e la natura di questi corpi celesti che oggi, finalmente, siamo riusciti a vedere anche noi.