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Da Ciampi a Draghi, quando si è scelto un premier esterno a Parlamento

Politica

Ambra Orengo

La proposta di riforma costituzionale elaborata dal governo Meloni prevede che, in caso di dimissioni del primo ministro, il Capo dello Stato incarichi il premier stesso o “un parlamentare a lui collegato”. L’obiettivo è evitare figure “esterne”: uno scenario che negli ultimi 30 anni si è verificato in modi e per ragioni diverse

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Il primo esecutivo tecnico della storia della Repubblica italiana è in realtà un ibrido: Carlo Azeglio Ciampi viene scelto nel 1993 pur non essendo un parlamentare. In quel momento, Ciampi ricopre infatti la carica di governatore della Banca d’Italia. Il suo governo, però, è formato in larga parte da politici: per questo, va considerato un governo politico con a capo un tecnico. 

Solo due anni dopo è il turno di Lamberto Dini. Scelto per guidare il Paese fino alle elezioni del 1996 (a seguito della sfiducia e delle dimissioni di Berlusconi), il governo Dini è il primo a essere composto esclusivamente da tecnici. Nei 16 mesi in cui resta in carica riesce a varare una riforma delle pensioni che imprime una prima sostanziale svolta dal sistema retributivo a quello contributivo.

È di nuovo la caduta di un governo Berlusconi, nel 2011, a portare a palazzo Chigi un tecnico esterno alla politica: il neo senatore a vita (nominato solo quattro giorni prima) Mario Monti. Scelto dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano per risollevare le sorti economiche dell’Italia in un momento particolarmente complesso, Monti si circonda di personalità lontane dalla politica attiva. “L'emozione è accresciuta dal fatto che prendo oggi la parola per la prima volta in questa Aula”, sottolinea Monti nel suo discorso per la fiducia. Il suo governo sarà ricordato soprattutto per le misure di austerità, una su tutte la riforma delle pensioni Fornero, rese possibili proprio dall’indipendenza dei suoi ministri.

Dieci anni di cambi a Palazzo Chigi

 

Dopo elezioni politiche in cui nessuna coalizione ottiene una vittoria netta, il presidente Napolitano nel 2013 affida l’incarico di formare un governo “di larghe intese” – sostenuto cioè da una coalizione più ampia possibile – a Enrico Letta. Dura poco: meno di un anno dopo il leader del suo partito, il segretario Pd Matteo Renzi, prende il posto di Letta ed entra per la prima volta in Parlamento. Di nuovo, uno scenario che con la riforma costituzionale ipotizzata dal governo Meloni non sarebbe possibile perché l’incarico per formare un governo potrà essere dato solo al premier dimissionario o a un “parlamentare eletto in una lista a lui o lei collegata”.

Dopo Renzi è il turno di Gentiloni e nel 2018, le elezioni. L’alleanza che ne emerge sorprende molti: Lega e Movimento 5 Stelle si uniscono per formare il nuovo governo, ma l’impresa non è semplice. Servono tre mesi al presidente Mattarella per poter sciogliere le riserve. E il nome indicato, alla fine, sarà un’altra sorpresa, un altro outsider della politica: Giuseppe Conte. Avvocato, giurista, sconosciuto ai più. Finirà per diventare il presidente del Consiglio che guiderà l’Italia – con un governo e una maggioranza diversa, questa volta insieme al Pd – nel periodo della pandemia.

L’ultimo presidente del consiglio “esterno” è Mario Draghi. Economista, banchiere, presidente della BCE (e autore del celebre “whatever it takes), Draghi viene incaricato dal presidente Mattarella per formare un nuovo esecutivo dopo la crisi del Conte II. Come nel caso di Ciampi, 28 anni prima, anche in questo caso è più corretto parlare di “ibrido”: il governo Draghi è infatti un esecutivo presieduto da un indipendente e composto in parte da tecnici e in parte da politici. Tra i pochi a chiamarsi fuori, Giorgia Meloni e il suo partito. Gli stessi che ora, con l’ipotetica riforma costituzionale, potrebbero decidere che il governo Draghi sarà stato davvero l’ultimo del suo genere.

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