Lettera a una prof: "In questo giorno buio penso a lei"

Politica
Roma, 14 dicembre 2010. La rissa alla Camera, le violenze in piazza
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Paola ha 26 anni e dopo la laurea ha trovato lavoro all'estero. Davanti alle immagini della rissa in parlamento e degli scontri nelle piazze di Roma, ha scritto a una sua insegnante del liceo: "I partiti non ci vogliono. La violenza non mi interessa"

"Andare via non è la risposta. Ma non ne ho altre. Vorrei che ci fosse un altro modo".
Paola ha 26 anni, si è laureata il 12 dicembre 2008  e poi è partita. Ha viaggiato e ha trovato amore, casa e lavoro ("rispettabile e molto ben pagato, ottenuto alla presentazione di me stessa e di un curriculum, il mio personale sudario") altrove: in Svizzera.
Da lì Paola ha assistito, martedi 14 dicembre, alla rissa in parlamento e alla violenza degli studenti nelle strade di Roma. "Un giorno buio", per il suo paese, per l'Italia. Così, ha scritto una lettera, privata, alla sua professoressa di filosofia del liceo, a Vicenza. Una lettera che racconta il suo orgoglio e la sua disperazione: "La piazza non serve. Il voto è una legittimazione di decisioni prese altrove. I partiti non ci vogliono o ci vogliono per usarci. La violenza non mi interessa. Ai ventenni che mi chiedono, come mi chiedo io, cosa fare per cambiare le cose?, rispondo con una non risposta: andatevene! La risposta che loro chiedono a me non la conosco".
Una lettera pubblicata sul web del Centro di ricerca in fenomenologia e scienze della persona dell'Università Vita-Salute San Raffaele di Milano e ripresa su Facebook, che subito ha acceso discussioni. Chi le dice: troppo facile scappare. E chi invece scrive e pensa che "sia una grande lettera. Piena di verità".

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Lettera a una professoressa. “Buongiorno Prof! Come sta? In questo giorno buio penso a lei…”

Buongiorno Prof!

Come sta? In questo giorno buio penso a lei, e ai tanti come lei che si stanno leccando le ferite, sempre più delusi.

Penso alle nostre discussioni, ai nostri “noi” a sedici anni, quando il voto non c’era, ma c’erano le discussioni, le litigate, e la piazza ad accogliere i nostri sfoghi.

Sono partita due anni fa. Il dodici dicembre duemilaotto mi sono presa quel centodieci e lode come fosse l’ultimo regalo che il mio paese poteva farmi e il ventidue dicembre prendevo un aereo che mi avrebbe portata altrove. Non sono più tornata. Ho viaggiato, ho visto pezzi di mondo, Australia, India, Medio Oriente. Ho scelto il mio piccolo giardino felice, qui, in Svizzera. Dove vivere una vita onesta sembra così magnificamente normale, banale addirittura. Finalmente.

Vivo qui, dove passeggiare con l’uomo che amo, che porta scritto sulla pelle un natale lontano, in un paese caldo e povero, non mi rende più suscettibile agli sguardi.

Vivo qui, dove ho un lavoro rispettabile e molto ben pagato, ottenuto alla presentazione di me stessa e di un curriculum, il mio personale sudario.

Vivo qui, dove i miei figli, mezzisangue, andranno a scuola con altri mezzisangue, testimoni e frutti di storie diverse dalle loro e dalle quali avranno tanto da imparare.

Vivo qui, dove chi mi circonda non sa pronunciare il mio nome, ma mi rispetta.

Vivo qui. Ma ieri ho pianto. E ho pianto perché sì, vivo qui, ma sono italiana. E fiera di esserlo. Non mi nascondo come tanti connazionali, che per evitare sorrisetti, prese per i fondelli o battute scontate, si dicono Ticinesi. E come biasimarli? Sarebbe tanto più facile. Io non sono ticinese, sono Italiana. Punto.

Ma non permetto a colleghi o conoscenti di offendermi in quanto tale, io sono, come qualcuno ha detto degli italiani “una nana, seduta sulla groppa di un gigante”. Sono la figlia dei diritti conquistati col sangue, sono la figlia di Dante e di Leonardo. Sono la figlia di Cavour, dei partigiani, di Falcone e la sua scorta. Ieri piangevo per loro, per il sangue versato, per cosa poi? per questo niente? Ho assistito ai discorsi alle Camere, hanno violentato un luogo per me sacro, un luogo dove dovrebbero sedere i migliori. E invece… Invece siede in niente, il nulla. Non solo persone prive di qualsiasi pensiero strutturato, privi di valori per cui valga la pensa spendersi, ma anche, mi scusi, dei “morti di fame” (e lo dico con il più grande rispetto per chi di fame ci muore davvero). Persone così disperate da poter appoggiare chi estingue loro il mutuo? Dire, “vendersi per il mutuo”, sarebbe addirittura un complimento, considerato che per vendersi, per vendere un ideale, un’idea, bisognerebbe almeno averla. e crederci.

E mi arrabbio e ancora mi indigno. Ma non posso stupirmene: quella gente non l’ha votata nessuno, l’ha “nominata”,  nominata!, il partito. Come si nominano chessò, i senatori a vita (tra l’altro, perché nessuno si indigna al loro assenteismo in un giorno del genere, quando qualche testa sarebbe servita?). Un nominato da qualche unto dal signore, nominato in nome di chissà quale pacchetto di voti (o peggio forse?), perché poi non dovrebbe rispondere al padrone o, trovandone uno di più conveniente, tradirlo?

Di che mi stupisco? Non mi stupisco dei parlamentari, non nutrivo nessuna aspettativa. Mi stupisco dell’uomo. In quanto tale. Mi stupisco del come amici e conoscenti postino commenti aberranti su facebook in questi giorni, tipo “ah ah, vi sta bene!”, o peggio “alla faccia di chi voleva che cadesse. Lui non cade mai”. Mi stupisco di me, come loro, trasformata in tifosa della politica, che vorrebbe vederli marcire di precarietà. Mi arrabbio per aver trasformato quello zon politikon che ero, in ultrà. Mi arrabbio nel vedermi appesa alla speranza di un Vendola qualunque, cosciente che un uomo di quel calibro non è altro che un altro Berlusconi. Vorrei poter credere alle idee e non agli uomini. Vorrei poter immaginare un’Italia diversa. Vorrei poter immaginare di voler tornare, un giorno.

Ma le idee viaggiano sopra agli uomini. E allora troviamoli! Ne conosco una manciata, che hanno provato come me a fare politica, ad entrare in un partito, a dar voce alle loro idee. Ma i partiti non vogliono idee, vogliono voti, vogliono appalti, vogliono altro.

Mi rattrista sentire mio fratello che, pensando di consolarmi, dice “paola, ma non starci male. Ci state più male voi all’estero che tutti noi qui”, e quando dice “noi”, intende lui e i suoi amici, che fino a ieri manifestavano contro il ddl. Gelmini.

Bene.

Mio fratello partirà. Anche lui. Gli altri si allontaneranno dai partiti e dalla politica. Che ne sarà del paese del rinascimento? Quando rinascerà di nuovo?

La piazza non serve.

Il voto è una legittimazione di decisioni prese altrove.

I partiti non ci vogliono o ci vogliono per usarci.

La violenza non mi interessa.

Ai ventenni che mi chiedono, come mi chiedo io, cosa fare per cambiare le cose?, rispondo con una non risposta: andatevene! La risposta che loro chiedono a me non la conosco.

Chiudo con la mail che mio padre, mi ha mandato ieri, a conta chiusa : “Ecco come si governa! B. insegna. Povero parlamento e povera Italia mia.”

La abbraccio,
paola

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