Lo ha detto il governatore pugliese riferendosi alla sua candidatura alla guida del centrosinistra. Per Mannheimer è un gesto che “può significare molto”. Di certo non è l’unico: da almeno un ventennio, l’accessorio riveste un ruolo centrale in politica
di Filippo Maria Battaglia
Un candidato premier con l’orecchino? Perché no.
L’ipotesi non è così remota. Da tempo, ormai, Nichi Vendola ha annunciato che parteciperà alle prossime primarie del centrosinistra.
Intervistato dall’Ansa, ha aggiunto: “Difficilmente vi rinuncerò” (sia alle primarie sia all’orecchino, si intende).
In Italia, sarebbe un inedito assoluto. Eppure, anche nel nostro Paese, il ruolo di simboli e segni di appartenenza o di diversità (comprese cravatte verdi, monili a forma di croce, tacchi 12 e via proseguendo) non è affatto sconosciuto.
A confermarlo, Renato Mannheimer, presidente dell’Ispo e ordinario di Sociologia all’Università Bicocca di Milano: “Mai come in questo periodo – dice a Sky.it - i simboli giocano un ruolo straordinario. E ciò accade particolarmente nel caso di Nichi Vendola. Il suo è un messaggio innovativo, di rottura, destinato a un target che da lui si aspetta il cambiamento. Per questo il candidato premier che non rinuncia alla sua identità può avere un significato forte, almeno per il tipo di elettorato a cui il governatore pugliese si rivolge”.
L’orecchino di Vendola è un segnale forte, d’accordo. Ma non è il solo.
Riprendendo una tradizione consolidata nel Novecento, i leghisti, due decenni fa, avevano trasformato un colore (il verde) in un simbolo di una parola, che prima era coincisa con la secessione e solo in un secondo momento con il federalismo, tingendo un intero abbigliamento tra giacche, foulard, cravatte, t-shirt e fazzoletti vari.
Negli ultimi due decenni, il loro leader, Umberto Bossi, ha fatto di un indumento, la canottiera, il simbolo di un’idea (la presunta virilità del Nord) e di un atteggiamento (il cosiddetto “celodurismo”) per molti assai discutibile ma certamente efficace e di impatto.
Ma non è finita qui. Più di una volta, anche sui tacchi delle scarpe s’è scatenata una polemica, tra querelle femminili (“I tacchi logorano chi non c’è” ha ironizzato la Santanchè replicando alle critiche sulla scarsa rappresentatività delle donne nel Pdl) e maldicenze maschili (che su Facebook hanno scatenato anche qualche bizzarro gruppo sul premier).
Berlusconi, dal canto suo ha fatto persino di più: in risposta alla sentenza della Corte dei diritti dell' uomo di Strasburgo, che aveva bocciato l'icona religiosa nelle scuole, lo scorso Natale ha regalato alle eurodeputate del Pdl un gioiello a forma di croce.
Un candidato premier con l’orecchino? Perché no.
L’ipotesi non è così remota. Da tempo, ormai, Nichi Vendola ha annunciato che parteciperà alle prossime primarie del centrosinistra.
Intervistato dall’Ansa, ha aggiunto: “Difficilmente vi rinuncerò” (sia alle primarie sia all’orecchino, si intende).
In Italia, sarebbe un inedito assoluto. Eppure, anche nel nostro Paese, il ruolo di simboli e segni di appartenenza o di diversità (comprese cravatte verdi, monili a forma di croce, tacchi 12 e via proseguendo) non è affatto sconosciuto.
A confermarlo, Renato Mannheimer, presidente dell’Ispo e ordinario di Sociologia all’Università Bicocca di Milano: “Mai come in questo periodo – dice a Sky.it - i simboli giocano un ruolo straordinario. E ciò accade particolarmente nel caso di Nichi Vendola. Il suo è un messaggio innovativo, di rottura, destinato a un target che da lui si aspetta il cambiamento. Per questo il candidato premier che non rinuncia alla sua identità può avere un significato forte, almeno per il tipo di elettorato a cui il governatore pugliese si rivolge”.
L’orecchino di Vendola è un segnale forte, d’accordo. Ma non è il solo.
Riprendendo una tradizione consolidata nel Novecento, i leghisti, due decenni fa, avevano trasformato un colore (il verde) in un simbolo di una parola, che prima era coincisa con la secessione e solo in un secondo momento con il federalismo, tingendo un intero abbigliamento tra giacche, foulard, cravatte, t-shirt e fazzoletti vari.
Negli ultimi due decenni, il loro leader, Umberto Bossi, ha fatto di un indumento, la canottiera, il simbolo di un’idea (la presunta virilità del Nord) e di un atteggiamento (il cosiddetto “celodurismo”) per molti assai discutibile ma certamente efficace e di impatto.
Ma non è finita qui. Più di una volta, anche sui tacchi delle scarpe s’è scatenata una polemica, tra querelle femminili (“I tacchi logorano chi non c’è” ha ironizzato la Santanchè replicando alle critiche sulla scarsa rappresentatività delle donne nel Pdl) e maldicenze maschili (che su Facebook hanno scatenato anche qualche bizzarro gruppo sul premier).
Berlusconi, dal canto suo ha fatto persino di più: in risposta alla sentenza della Corte dei diritti dell' uomo di Strasburgo, che aveva bocciato l'icona religiosa nelle scuole, lo scorso Natale ha regalato alle eurodeputate del Pdl un gioiello a forma di croce.