Kosovo, tornano i sindaci serbi, ma con quali prospettive?

Due partite giocate a distanza di poche ore. L’una su un campo da calcio, l’altra nei seggi elettorali. L’11 ottobre scorso a Leskovac, nel cuore della Serbia, si è tenuto un match blindato tra le nazionali di Serbia e Albania. Nel 2014 al 42esimo minuto il gioco fu interrotto per il sorvolo di un drone che trasportava la bandiera della Grande Albania e finì tutto nel peggiore dei modi: incidenti sul campo e scontri sfociati in assalti e violenze. Quella del 2025 è stata una partita decisamente più tranquilla - l’ampio dispiegamento di forze dell’ordine è stato un deterrente - ma la Federazione calcistica kosovara ha chiesto provvedimenti per la presenza sugli spalti di slogan provocatori. Uno in particolare che tocca un nervo scoperto: lo striscione raffigurante un grande Kosovo con i colori del tricolore serbo. Del resto, Belgrado non ha mai accettato la dichiarazione di indipendenza di Pristina del 2008, a pochi anni dalla fine della guerra sanguinosa tra i serbi, con alle spalle le forze federali jugoslave, e gli albanesi dell'Esercito di Liberazione del Kosovo . Un conflitto che terminò con i bombardamenti Nato sulla Serbia per frenare la pulizia etnica di Milosevic e il ritiro delle forze serbe. Da allora ci sono state varie crisi e anche negli ultimi anni i rapporti tra minoranza serba, concentrata soprattutto nel nord del Kosovo, e Pristina hanno visto un forte deterioramento, con alcuni momenti di escalation. Per la Serbia è ancora come ai tempi della Jugoslavia: il “Kosovo è Serbia”, una sua provincia autonoma seppur a maggioranza albanese. Anche la Costituzione sancisce che è parte integrante del territorio sovrano della Repubblica di Serbia. I muri della capitale sono pieni di graffiti nazionalisti con la frase “Quando l’esercito tornerà in Kosovo…”. Ogni volta che si apre il discorso, i riferimenti storici per validare il legame con il Kosovo sono immancabili, così come i richiami religiosi ai monasteri, considerati la culla della Chiesa ortodossa serba. A Mitrovica, la città del Kosovo divisa in due dal fiume Ibar, in cui vive a nord la minoranza serba e a sud la maggioranza albanese, la partita di qualificazione ai mondiali è stata seguita con un coinvolgimento degno di una finale. Molto più che intrattenimento, uno scontro “esistenziale”. Nella parte sud della città lo 0 a 1 dell’Albania è stato festeggiato come un piccolo Capodanno, petardi, fuochi d’artificio, auto sfreccianti con le bandiere albanesi sventolate dai finestrini. Sull’altra sponda religioso silenzio per la bruciante sconfitta. La sera successiva, quando sono arrivati i primi risultati delle elezioni amministrative, che si sono svolte il 12 ottobre, si è replicata un’atmosfera simile. C’è stato certamente spazio per musica popolare e vessilli serbi agitati in prossimità della rotonda su cui domina la grande statua di Lazar, eroe serbo del XIV secolo. Tuttavia, dopo la breve euforia dei sostenitori della trionfante Lista serba , legata a doppio filo a Belgrado e al presidente Aleksandar Vucic che regge le sorti del Paese da 13 anni, nel nord si è tornati a respirare un clima tutt’altro che festoso. Anche se sulla carta si è trattato del ritorno nel gioco politico dei serbi dopo il passo indietro per protesta contro le politiche restrittive di Pristina, il sentimento che prevale tra la minoranza è lo scoramento, a tratti rassegnazione. La Lista serba si è imposta in modo netto su tutte le altre 11 formazioni serbe, con un’ampia partecipazione al voto della comunità serba, ed ha conquistato quasi tutti i comuni a maggioranza serba, 9 su 10 per l’esattezza. Tra cui ovviamente Mitrovica Nord. Nel decimo comune Srpska Lista andrà al ballottaggio il 9 novembre, quando si terrà il secondo turno in tutto il Paese. La scelta di tornare nell’agone elettorale locale ha rappresentato un cambio di strategia. Dopo le fortissime tensioni, esplose a seguito alla decisione di Pristina di non riconoscere più valide le targhe serbe, i serbi avevano optato nel 2022 per l’abbandono delle istituzioni e il boicottaggio in massa delle elezioni locali dell’anno successivo. “La crisi delle targhe ha dato avvio a un periodo doloroso per i serbi in Kosovo. A ciò ha fatto seguito l'uscita dalle istituzioni proprio a causa della questione delle immatricolazioni, e poi c’è stato l'inizio del governo dei sindaci albanesi nel nord. Ciò è stato seguito da un'ondata di chiusure di uffici e rappresentanze serbe, dalle poste alla Cassa nazionale di assicurazione sanitaria”, spiega Andrija Lazarevic, giornalista nato a Kosovska Mitrovica e corrispondente dal Kosovo di Nova, uno de più importanti media serbi di opposizione a Vucic. La battaglia delle targhe, così è stata ribattezzata, si è conclusa nel 2024 grazie alla mediazione europea, ma ha segnato comunque un prima e un dopo per il suo effetto domino. La sensazione che l’elezione di nuovi rappresentanti locali non restituisca il terreno perso è diffusa. “La Lista Serba ha ottenuto una vittoria convincente. Tuttavia, l'amara verità è che la situazione sul campo è cambiata così tanto che è difficile porre rimedio. Solo i funzionari di alto livello stanno tornando a ricoprire dei ruoli, mentre il reinsediamento degli altri rappresentanti dei livelli più bassi sarà difficile o quasi impossibile”, continua Lazarević che monitora la situazione dei serbi in Kosovo anche attraverso una piattaforma online da lui fondata, Zubin Potok. Insomma, non si torna indietro. Da un lato gli errori strategici di Belgrado e della sua propaggine kosovara, dall’altra l’atteggiamento aggressivo - per alcuni apertamente nazionalista - del premier kosovaro Kurti, che è stato ammonito non solo dall’Ue, ma persino dagli Usa, storico alleato. Gli Stati Uniti, acclamati come salvatori nella guerra del '98-99 - la statua di Bill Clinton nel centro di Pristina ne è la prova - hanno sospeso a tempo indeterminato il cosiddetto “Dialogo strategico” con il Kosovo. Un grattacapo vero e proprio per Kurti che viene accusato dall'opposizione di aver isolato il Paese e dai serbi di voler albanesizzare con il pugno di ferro anche la parte nord. Senza contare l’impasse parlamentare: dopo le elezioni legislative del 9 febbraio scorso, il leader ha mancato la maggioranza assoluta e il Kosovo non ha definito per mesi la nuova assemblea, senza così poter procedere alla formazione di un nuovo governo. Una crisi politica a livello centrale che è ancora in corso. Sul fronte opposto, il presidente Vucic ha celebrato il successo di Srpska Lista, ma deve fare i conti con delle accuse di “tradimento”. Sarebbe responsabile di aver abbandonato i serbi del Kosovo e avrebbe dimostrato un’assoluta incapacità nel fronteggiare l’offensiva di Kurti. Alla vigilia delle elezioni amministrative kosovare, è stata organizzata a Belgrado una marcia su iniziativa degli studenti che da mesi protestano contro il presidente e la corruzione, mentre parallelamente si teneva il raduno filogovernativo. Due manifestazioni separate e inconciliabili, entrambe a sostegno dei serbi sotto l'autorità di Pristina, che dimostrano come il dossier Kosovo non unisca contro il nemico esterno, ma sia, al contrario, un’ulteriore ragione di divisione in un Paese sempre più spaccato.

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Ludovica Passeri