Cosa ci racconta di Israele la "piazza degli ostaggi"

È la fine di un incubo, e l’inizio, forse, della ricostruzione, psicologica e morale per la società israeliana, fisica, civile umanitaria per quella di Gaza. Ora Israele può essere libera. Libera di continuare a dividersi e a discutere, libera purtroppo perfino di combattere, senza il peso dei propri connazionali segregati nei tunnel di Gaza dai miliziani palestinesi. La liberazione oggi è quella dall’ansia di aver lasciato indietro altri israeliani, cosa che nella storia del Paese non era mai successa. Gli ostaggi, i prigionieri, sono sempre stati liberati o si è tentato di farlo, anche con sacrifici enormi. Come quando più di 1000 prigionieri palestinesi furono rilasciati in cambio del soldato israeliano Ghilad Shalit e tra questi c’era anche il capo di Hamas Yayha Sinwar, poi organizzatore dell’attacco del 7 ottobre. O come quando, in cambio dei soli corpi senza vita di due soldati rapiti da Hezbollah, nel 2008 furono rilasciati decine di corpi e diversi prigionieri, e tra questi anche Samir Kuntar, terrorista palestinese che 29 anni prima aveva ucciso una famiglia e una bambina a sangue freddo spaccandole la testa su una pietra. Ma in Israele, dove tutti i cittadini, donne e uomini, a parte gli ultraortodossi e gli arabi, fanno il servizio militare e rimangono riservisti fino a 40 o 50 anni, dove insomma esercito e popolo sono pressoché la stessa cosa, e dove si combatte da sempre, la certezza di non essere lasciati indietro era uno dei collanti della società, un patto non scritto che dava forza e motivazione a chi metteva a rischio la propria vita per difendere il Paese. Benjamin Netanyahu con la sua scelta di dare priorità alle operazioni militari e di procedere con la distruzione di Gaza, nel velleitario tentativo di eliminare completamente Hamas, e quindi con la sua decisione di non privilegiare innanzi tutto il rilascio di tutti gli ostaggi, ha rotto il patto che legava l’intero Paese, dilaniandolo ancora di più, accentuando in maniera insanabile le divisioni che già lo attraversavano. La liberazione degli ostaggi e la liberazione dal problema degli ostaggi non possono quindi colmare la frattura all’interno della società israeliana, eliminare il risentimento dei parenti, degli amici delle vittime e di buona parte del Paese nei confronti del primo ministro, reo, prima del 7 ottobre di negligenza, dopo di cinismo e indifferenza. I fischi della ”Piazza degli ostaggi” quando sul maxischermo è apparso il suo volto sono emblematici. “Si doveva fare prima - dicono - si doveva fare di più. Si doveva riportare tutti a casa vivi”. Gli israeliani non dimenticano le colpe del premier e sono pronti a fargliela pagare. La festa di oggi non cancella la spaccatura tra Bibistim, i fan di Bibi Netnayahu che vivono incollati al canale 14, un po’ la Fox News versione israeliana, e il resto del Paese che li accusa di vivere, imbevuti di menzogne, in un mondo parallelo, fatto di fake news. Quella di ora è la vittoria di Donald Trump, il re straniero che ha risolto il problema con metodi spicci. Lui sì ha la gratitudine di tutti. E guai a Bibi se tenta di intestarsi il successo. Ecco un altro inedito problema di ciò che sta accadendo. Per la prima volta Israele non ha leader eroi nazionali da ringraziare per la propria “liberazione”. Non ha un Ben Gurion o un Moshè Dayan, un Izhak Rabin o un Ariel Sharon cui tributare riconoscenza. No, questa volta l’eroe è americano, venuto a risolvere ciò che gli israeliani non erano riusciti a sbrogliare. E ora che il presidente Usa è ripartito, ora che l’annuncio e la firma sull’accordo a Sharm el Sheik vengono accolti e salutati dal mondo intero, a casa si fanno i conti. Li fanno nelle vie di Tel Aviv e Gerusalemme, nei Kibbutz e nei villaggi vittime del 7 ottobre, e nella Striscia di Gaza distrutta da due anni di attacchi israeliani, devastata in ogni suo angolo, dove chissà quante vittime rimangono sotto le macerie. Si potrà mai superare tutto questo? Gli israeliani colpiti e massacrati il giorno dell’attacco di Hamas erano in buona parte pacifisti, di sinistra, aperti al dialogo. Molti avevano rapporti diretti con palestinesi di Gaza con cui collaboravano. E buona parte di quel mondo non crede più che una convivenza sia possibile. A Gaza, il massacro quotidiano, la crisi umanitaria, l’incubo della guerra senza fine contro un esercito troppo forte che ha ucciso decine di migliaia di civili non possono essere dimenticati. Non lo farà il mondo, non lo faranno sicuramente i palestinesi. La maggior parte degli israeliani, dopo il 7 ottobre crede che i palestinesi vogliano solo la loro morte e distruzione. La maggior parte dei palestinesi, dopo questi due anni di guerra, crede esattamente la stessa cosa degli israeliani. Ognuno continua con la propria narrativa, e ognuno ha ottime ragioni per alimentarla. Gli israeliani vedevano le piazze del mondo che si riempivano accusando Netanyahu di genocidio, e reagivano sempre nella stessa maniera: “Ce l’hanno con noi. Già una settimana dopo il 7 ottobre accusavano Israele. I nostri morti per loro non contano”. I Palestinesi vedevano l’Europa e l’occidente troppo lenti nel reagire e condannare Israele, troppo timidi nel trattarlo da Stato paria e rompere le relazioni con il suo governo. Ognuno guardando di fuori del Medioriente ha avuto buoni motivi per lamentarsi. Ma tra le mille cose perse in questi anni, quella forse più difficile da recuperare è la fiducia reciproca tra i due popoli, quel minimo indispensabile di fiducia necessario per fare veramente la pace.

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Renato Coen