Perché il discorso di Xi all’Onu cambia lo scenario globale sul clima

Per un campione della difesa del clima che se ne va, ce n’è un altro che arriva. Così, se un’Europa spaventata da se stessa, sta decidendo di rivedere al ribasso gli obiettivi del suo ambiziosissimo Green Deal, a comparire sulla scena in veste di superpotenza in grado di difendere ambiente e clima, è comparsa, a sorpresa, la Cina. Un passaggio di testimone che è stato chiaro nel corso delle ultime ore. Prima è arrivata l’evidenza del fatto che il Consiglio ambiente non è ancora riuscito ad approvare l’obiettivo di ridurre entro il 2040 le emissioni del 90% rispetto ai livelli del 1990 e che questo non accordo farà sì che l’UE, la potenza che fino a pochi mesi fa si era erta a alfiere del clima, si presenterà alla COP30 di novembre a mani vuote, senza un piano per la riduzione delle emissioni. Poi, poche ore dopo, è arrivato il discorso in video conferenza all’Assemblea dell’Onu del presidente cinese Xi Jinping che ha annunciato che la Cina, invece, non solo intende ridurre le sue emissioni di gas serra di almeno il 7-10 percento entro il 2035, ma che ha anche un piano per farlo. Anche se i numeri della riduzione promessa dalla Cina possono sembrare esigui si tratta di volumi imponenti: la Cina è il Paese più inquinante del mondo e, da sola, è responsabile di quasi un terzo delle emissioni climalteranti che ogni anno raggiungono l’atmosfera. Quindi un taglio, anche minimo, da parte della Cina potrebbe essere determinante. Per avere un ordine di grandezza, basti sapere che nel 2023 la Cina ha emesso 14 miliardi di tonnellate di anidride carbonica equivalente. L’Europa, nello stesso anno, ne ha emesse circa 3 miliardi. L’Italia, poco meno di 400 milioni. Una riduzione del 10% delle emissioni della Cina equivarrebbe a 1,4 miliardi di tonnellate all'anno, quindi sarebbe l’equivalente di un dimezzamento delle emissioni europee. Oppure ancora, sarebbe più del triplo di un ipotetico azzeramento delle emissioni italiane. Al di là dei numeri, però, ci sono due elementi da considerare: quello politico e quello climatico. L’elemento politico di questa dichiarazione cinese è enorme. La Cina, infatti, in passato, si era sempre mostrata molto fredda nei confronti di tutta la questione clima. Anzi, per certi aspetti, aveva rivendicato il suo diritto di poter inquinare come e quanto le pareva, visto che per ragioni storiche aveva iniziato a farlo due secoli più tardi dei Paesi occidentali. Così, alla fine di ogni COP e di ogni incontro a tema inquinamento, la posizione della Cina era sempre stata la stessa: le emissioni di gas serra cinesi avrebbero continuato a crescere, almeno fino al 2030, per sostenere la poderosa crescita industriale del Paese. Una riduzione prima di quella data era sempre stata fuori discussione, almeno fino a ieri, giorno nel quale Xi ha detto non solo che le emissioni non cresceranno più, ma che potrebbero anzi diminuire. Per capire le ragioni di questo cambio di posizione occorre fare un breve giro del mondo, passando da Bruxelles, Pechino, Washington e Mosca. Bruxelles, negli ultimi cinque anni, ha lavorato per dare una spinta decisiva allo sviluppo delle rinnovabili che, nel giro di breve tempo sono riuscite a coprire quasi la metà del fabbisogno energetico dell’Unione, trasformandosi in un ottimo affare e in un asset strategico. Pechino, d’altra parte, è stato il principale beneficiario di questa spinta europea verso le rinnovabili, dal momento che gran parte delle tecnologie e delle attrezzature per il solare e per l’eolico arrivano dalla Cina e, anzi, negli ultimi mesi hanno dato ossigeno a un mercato non più in ottima salute. Poi c’è Washington, che attualmente è guidata da un negazionista climatico che ha tolto gli Stati Uniti dalla faccenda ambiente, lasciando un enorme vuoto di leadership. Infine c’è Mosca, capitale di un Paese la cui economia si regge sull’export di oil & gas e che la Cina non fa mistero di voler rendere suo vassallo. Così, oggi, la Cina si trova nella posizione in cui intestarsi la questione riduzione delle emissioni le conviene da ogni punto di vista: commerciale, economico, politico. Inoltre, nemmeno a Pechino piace pagare fornitori esteri per l’energia che potrebbe prodursi da sola. Certo, a questo punto, occorre chiedersi quanto gli sforzi cinesi potranno essere determinanti per centrare l’obiettivo di non superare il grado e mezzo di aumento delle temperature rispetto all’epoca pre industriale. E qui le cose si fanno più complesse. L’obiettivo sembra, infatti, già parzialmente sfumato . Inoltre secondo gli analisti, gli sforzi messi in campo da tutti i Paesi del mondo non sono sufficienti a tenere le temperature al di sotto del punto di rottura. “I governi di tutto il mondo - scrive BBC citando un rapporto dello Stockholm Environment Institute - stanno pianificando collettivamente di produrre più del doppio della quantità di combustibili fossili nel 2030 rispetto a quella che sarebbe necessaria per mantenere l'aumento della temperatura media a 1,5 °C”. Fatti alla luce dei quali non c’è Cina che tenga. Fatti alla luce dei quali, il modo migliore che ha la Cina per diventare davvero agente della tutela del clima e del pianeta è quello di usare la sua influenza per esortare gli altri Paesi a impegnarsi, quanto lei. Anzi: possibilmente di più.

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Luciana Grosso