Il peacekeeping italiano avrà un ruolo anche in Ucraina?

Dopo la doppietta di vertici degli scorsi giorni, prima quello di Anchorage tra Donald Trump e Vladimir Putin e poi quello di Washington tra Trump, Volodymyr Zelensky e vari rappresentanti europei, si è ripreso a usare, con una certa frequenza, la parola peacekeeping in riferimento alla guerra in Ucraina. In realtà, l’uso di questo termine è del tutto prematuro. Si parla di peacekeeping, infatti, per le missioni destinate a mantenere, militarmente, le condizioni di pace là dove questa pace c’è, ma potrebbe essere rotta da reciproche e mai sopite ostilità. I militari coinvolti nelle missioni di Peacekeeping non hanno, né possono avere, alcun ruolo offensivo o difensivo, ma solo di vigilanza e controllo e, laddove queste non dovessero bastare e il conflitto riesplodere, non potrebbero avere nessun ruolo in esso. Un buon esempio, per avere chiaro che cosa sia e cosa faccia una missione di peacekeeping, è quello della missione Unifil in Libano. La missione Onu Unifil ha l’incarico di vigilare sui fragilissimi accordi di pace tra Israele e Libano e sul fatto che la striscia di terra ‘cuscinetto’ che divide i due Paesi resti sempre libera da ogni tipo di insediamento. Quando, però, lo scorso autunno Israele ha attaccato il sud del Libano controllato dalle milizie islamiche di Hezbollah, l’Unifil non ha potuto farci niente e non ha potuto schierare le sue truppe né a supporto di quelle israeliane né, tantomeno, a supporto di quelle di Hezbollah. Quindi, riassumendo, una missione di peacekeeping è una missione militare che opera laddove la pace, per quanto fragile, c’è già. Per questo il fatto che si parli di missioni di peacekeeping in Ucraina è allo stesso tempo prematuro e necessario. È prematuro perché al momento, laggiù, c’è solo guerra, guerra vera. E di pace da preservare e mantenere non si scorge neppure l’ombra. È necessario perché, al momento, non sembra ipotizzabile nessuna fine della guerra che passi dal campo: la Russia non intende arretrare dalle posizioni illegalmente ottenute; l’Ucraina non intende arrendersi. Questo rende evidente il fatto che gli esiti possibili siano solo due: o una continuazione sine die della guerra o una soluzione diplomatica che sospenda i combattimenti e cristallizzi la situazione in una condizione che, con ogni probabilità, sarà lontana sia dalle pretese russe che dalla legittimità territoriale ucraina. Inoltre, in ogni caso, qualunque soluzione di compromesso dovrà fare i conti con le esplicite mire espansionistiche russe, la cui mai sazia presenza fa temere attacchi a Paesi confinanti come Finlandia, Repubbliche baltiche e persino Polonia, Paese confinante con l’Ucraina. Per questo, qualunque soluzione, di qualunque tipo, avrà bisogno di una forza che vigili sul mantenimento delle posizioni concordate, il che significa - e torniamo al punto di partenza- di una forza di peacekeeping. In linea di massima le forze di peacekeeping sono formate da contingenti di Paesi terzi che, sotto l’egida di organismi internazionali come l’Onu o l’Unione europea, operano in modo da mantenere le condizioni alla base della pace. Nel caso di una missione di peacekeeping in Ucraina, questa potrebbe ipoteticamente essere formata dalle forze dei Paesi della Coalizione dei Volonterosi, la specie di sottoinsieme della Nato, formatasi lo scorso marzo all’indomani dello scontro nello Studio Ovale tra Trump e Zelensky, e impegnatasi a difendere l’Ucraina e le eventuali condizioni di un cessate il fuoco, anche nell’ipotesi . Al momento però non è chiaro come questo impegno potrebbe declinarsi. È noto infatti che Francia, Regno Unito e persino Germania potrebbero essere disponibili a inviare truppe sul terreno. Non è chiaro, invece, se l’Italia sia disposta a fare lo stesso. Secondo le parole della premier Giorgia Meloni, no. Ma risulta complicato comprendere come potremmo evitarlo, se la Coalizione, di cui il nostro Paese fa parte, dovesse arrivare a una decisione in tal senso. Allo stesso modo, però, occorre anche valutare che il nostro Paese è già impegnato in numerose missioni di peacekeeping, in particolare nel Sahara Occidentale, a Cipro, in India e Pakistan, nei Balcani e soprattutto in Libano, dove, per la missione Unifil, sono dislocati più di 1000 militari italiani. Oltre a questo, si legge sul sito del Ministero della Difesa “l’Italia è primo fornitore, in termini di personale militare e di polizia altamente qualificato, tra i Paesi occidentali e dell’Unione europea alle operazioni di mantenimento della pace delle Nazioni Unite. L’Italia è inoltre il settimo contributore al bilancio del peacekeeping Onu”. Un ruolo, quest’ultimo, che rende allo stesso tempo la nostra eventuale presenza in un’eventuale missione di pace tanto indispensabile quanto onerosa: indispensabile perché siamo tra i più qualificati al mondo a farlo; onerosa perché siamo già impegnati altrove.

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Luciana Grosso