La Palestina diventa banco di prova per la leadership di Starmer

Se Israele non imboccherà la strada del cessate il fuoco a Gaza, a settembre il Regno Unito seguirà l’esempio della Francia e formalizzerà il riconoscimento dello Stato di Palestina. Il governo britannico guidato da Keir Starmer ha approvato ieri un piano d’azione per la gestione della crisi in Medio Oriente, segnando un ulteriore strappo nei confronti dell’esecutivo di Benjamin Netanyahu. Londra accusa Israele di aver reso “sempre più intollerabili” le condizioni della popolazione nella Striscia e invita Tel Aviv ad aprire sia a un negoziato per la pace, sia a una trattativa concreta sulla soluzione dei due Stati. Finora, la posizione ufficiale del Regno Unito era rimasta improntata alla prudenza: sostegno alla soluzione a due Stati solo come esito di un impegno serio e reciproco da parte dello Stato ebraico e dell’Autorità Nazionale Palestinese, e rifiuto di riconoscimenti unilaterali nei confronti di Ramallah. Perché Starmer ora cambia passo Il deteriorarsi della situazione umanitaria a Gaza e la crescente pressione israeliana per intensificare le operazioni militari — con conseguente emergenza alimentare — hanno però creato un fronte politico trasversale favorevole a un cambio di passo all’interno del Partito Laburista. Ben 220 deputati della sinistra britannica hanno firmato un appello per il riconoscimento dello Stato di Palestina, scatenando un terremoto politico che ha spinto Starmer a richiamare il governo dalla pausa estiva, subito dopo un incontro in Scozia con il presidente americano Donald Trump. Quest’ultimo, pur non sostenendo la linea di Londra, non ha espresso contrarietà, evitando però di esercitare pressioni dirette su Israele. Per il premier britannico, la mossa è una scommessa politica. Insieme all’azione diplomatica di Emmanuel Macron, Starmer punta a esercitare una pressione europea su Israele, cercando di convincere i governi più tiepidi — come Italia e Germania — della necessità di differenziare la posizione del Vecchio Continente da quella degli Stati Uniti, storicamente più vicina a Tel Aviv. Un’escalation diplomatica Il riconoscimento rientra in una traiettoria diplomatica ben precisa: a maggio Londra aveva congelato i negoziati per un accordo commerciale con Israele; a giugno, Starmer aveva firmato con Macron e il premier canadese Mark Carney una lettera congiunta per criticare l’allargamento delle operazioni militari nella Striscia; e nei giorni scorsi Downing Street ha invocato un cessate il fuoco immediato e denunciato il rischio carestia. Effetto-domino? Questo attivismo britannico si inserisce in un quadro più ampio. Quanto può contare, oggi, l’Europa? Gesti simbolici come il riconoscimento dello Stato di Palestina possono davvero produrre conseguenze politiche? Domande aperte, mentre Macron si conferma capofila di una nuova corsa diplomatica. Parigi ha recentemente promosso a New York una conferenza congiunta con l’Arabia Saudita, raccogliendo l’adesione di nove Paesi che finora non avevano relazioni ufficiali con l’ANP: Andorra, Australia, Canada, Finlandia, Lussemburgo, Malta, Nuova Zelanda, Portogallo e San Marino. La memoria dell’Impero Il Regno Unito, infine, deve fare i conti con la propria storia. “La Gran Bretagna svolse un ruolo unico nella storia dell’area con la dichiarazione Balfour e la creazione di una patria ebraica”, ha ricordato l’editorialista del Guardian John Crace. Ma nel 1948, al termine del mandato coloniale, Londra aveva anche promesso al popolo palestinese il diritto a una terra e a una vita in pace. “È giunto il momento — ha scritto Crace — di non limitarsi più a sostenere a parole la soluzione a due Stati e di correggere un’ingiustizia storica”. Per il Regno Unito, la partita è delicata. Se Israele continuerà a rifiutare ogni mediazione, contando sul sostegno americano al governo Netanyahu, il rischio è che l’iniziativa britannica resti solo un gesto simbolico. Ma resta il fatto che oggi, anche in una nazione storicamente prudente sul dossier palestinese, la questione dello Stato è tornata al centro del dibattito. E per un Occidente in cui le resistenze iniziano a scricchiolare, l’impatto potrebbe essere profondo.

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Andrea Muratore