La politica per il business: come leggere la visita di Trump nel Golfo

L'idea era quella di arrivare nel Golfo e prendere quello che c'era da prendere. "Torneranno pieni di assegni", ha detto Trump dei tanti imprenditori in viaggio con lui in Medio Oriente. Niente discorsi alti, nessuna ricetta per la pace, tanto meno dichiarazioni di principio o temerarie garanzie di impegno per la democrazia. E tuttavia l'economia e il commercio sono talmente preponderanti nella visione del Presidente che diventano essi stessi gli ingredienti di una consapevole o inconsapevole dottrina Trump, sfacciata e diretta come il suo estensore. La politica, per Trump, è al servizio del business, non viceversa. E questo vale anche all'estero. All'Arabia Saudita, in crisi di liquidità, il presidente americano ha chiesto mille miliardi di dollari di investimenti. A parole ne ha ottenuti seicento, con un vago impegno ad aumentarli, ma in concreto sembra siano un po' meno. Ci si passa volentieri sopra, però, se la confezione è all'altezza del regalo: lo sfarzo con cui è stato accolto Trump è stato da Mille e Una Notte. Il tappeto color lavanda sulla pista d'atterraggio, i dignitari schierati, il corteo in pompa magna, i dettagli dorati di una Mar-a-Lago d'Oriente. Puro stile Trump, pomposo e luccicante. "Ci piacciamo molto", ha detto il Presidente del Principe Mohammad bin Salman. Non dev'essergli sfuggito il fatto che Biden, nel 2022, venne accolto a Riad in maniera ben più sobria. Il Presidente democratico aveva chiuso un occhio - uno solo - sulle accuse di violazione dei diritti umani rivolte ai leader sauditi, per non parlare dell'omicidio del giornalista Khashoggi. Trump li ha chiusi tutti e due. Naturale che bin Salman penda dalla sua parte. Il discorso del presidente tocca tutte le aree di crisi, ma a volo d'angelo. Iran. È una forza destabilizzante, e farebbe bene a stringere la mano di Washington finché è tesa. Yemen. La resa degli Houthi prova l'efficacia della politica estera trumpiana. Libano. Beirut deve creare un futuro di sviluppo e pace con i vicini. Anche quando parla di politica, Trump lo fa con l'occhio del businessman o del commerciante. D’altronde la politica è al servizio degli affari, ricordate? Ottenere pace e stabilità per un Paese significa aggiungerlo alla lista delle nazioni con cui si possono fare affari. È anche così che Trump guarda alla Siria: la rimozione delle sanzioni contro Damasco gli vale l'ovazione del pubblico e il plauso dell'Onu. La guerra è un fastidioso ostacolo sulla strada che porta agli accordi commerciali, dunque l'ostinazione con cui Israele sta portando avanti le operazioni militari a Gaza potrebbe contribuire a spiegare perché fra Trump e Netanyahu è calato il gelo. I palestinesi meritano un futuro migliore, dice il presidente; non si capisce se intenda dentro o fuori dalla Striscia, visto che per costruire “la Riviera del Medio Oriente” aveva ipotizzato un trasferimento più o meno coatto. Il sanguinoso conflitto di Gaza rende per ora impossibile la normalizzazione dei rapporti fra Riad e Tel Aviv, che i sauditi - auspica Trump - raggiungeranno "con i loro tempi". Secondo il presidente nessuno può riuscirci meglio di bin Salman, esponente principale di quella nuova generazione di leader che “sta trascendendo gli antichi conflitti e le stanche divisioni del passato, forgiando un futuro in cui il Medio Oriente è definito dal commercio e non dal caos". Ecco qui la ricetta: commercio al posto del caos. Certo sarebbe ingenuo pensare che la politica estera dei predecessori di Trump fosse animata solo da nobili ideali democratici, ma gli obiettivi più prosaici si sono sempre intrecciati con la convinzione di essere chiamati a ribadire la supremazia morale degli Stati Uniti. Come ha scritto Richard Haas, Presidente del Council on Foreign Relations, soprattutto dopo l'11 settembre "c'era la volontà di far passare il messaggio che gli Stati Uniti non erano sulla difensiva, ma che invece sarebbero stati una forza proattiva nel mondo". Prima e dopo il 2001 l'esigenza di conciliare traguardi ideali ed esigenze meno nobili ha inevitabilmente portato a imbarazzanti contraddizioni. La difesa della democrazia propugnata da Washington si è sempre prestata a lampanti ipocrisie, dal doppio standard nella valutazione dei governi autocratici, agli abusi del regime change, al paternalismo della democrazia teoricamente “importata” ma concretamente imposta. Trump, consapevolmente o meno, sta rinnegando questa ipocrisia a colpi di sfacciataggine: non elimina le contraddizioni , semplicemente non se ne cura. In un corsivo sul New York Times, Thomas B. Edsall ha scritto che il super potere di Trump è il fatto di essere shameless, senza vergogna. Non importa quanto siano sporche le mani che stringe, l'importante è che valga la pena stringerle. La "dottrina non-dottrina" è contenuta in particolare in alcuni passaggi del discorso di Riad. Per esempio: "è fondamentale che il mondo intero prenda atto che questa grande trasformazione non è venuta dall'intervento occidentale che ha dato lezioni su come vivere o come governare i propri affari. Le scintillanti meraviglie di Riad e Abu Dhabi non sono state create dai cosiddetti nation-builder, dai neoconservatori o dalle organizzazioni no-profit liberali come quelle che hanno fallito spendendo migliaia di miliardi nel tentativo di portare sviluppo a Kabul e Baghdad". E poi: "Alla fine, i cosiddetti costruttori di nazioni hanno distrutto molte più nazioni di quante ne abbiano costruite, e gli interventisti intervenivano in società complesse che non capivano". Qualcuno dirà che è vero, qualcun altro obietterà che l'idea di politica estera propugnata da Trump non è molto migliore. A giudicare dalle sue parole e dalle sue frequentazioni, il presidente ha un debole per i Paesi governati da regimi autocratici che usano il pugno di ferro con i propri cittadini, reprimono il dissenso e fanno affari spesso, volentieri e con chiunque. L'idea che ci siano degli standard democratici da rispettare non sfiora il presidente. Non lo sfiora mai. Quando i giornalisti americani gli hanno chiesto conto del lussuoso aereo donato dal Qatar alla sua Presidential Library Trump è sembrato sinceramente stupito, oltre che stizzito: perché dovrei rinunciare a un regalo? Per lo stesso motivo il presidente fatica a intuire il conflitto d'interessi che si nasconde dietro il viaggio in tre paesi con cui la famiglia Trump ha radicati e continui rapporti commerciali. Il Wall Street Journal sottolinea come per Trump la politica interna sia un do ut des tanto quanto quella estera: "Poco prima del suo insediamento, ha lanciato un'iniziativa nel settore delle criptovalute che, a suo dire, potrebbe fruttargli miliardi di dollari. Ha fatto pressione sulle aziende regolamentate dalla sua amministrazione, tra cui Meta, affinché patteggiassero con lui cause legali per milioni di dollari. E ha spinto gli studi legali associati ai suoi presunti nemici politici a donare un miliardo di dollari in servizi legali gratuiti per le cause che lo interessavano di più". Il "perché rinunciare a un regalo?" si trasforma in questo caso nel "perché rinunciare a trarre vantaggio dal potere che mi hanno dato?”. Per Trump la furbizia non è mai un difetto, e la sconfitta non è mai onorevole . Nel 2018, mentre si trovava in Francia, cancellò una visita nel cimitero americano di Aisne-Marne. Secondo diverse fonti sostenne che quel posto era "pieno di perdenti", e che gli oltre 1800 marines sepolti in quel luogo erano degli "sfigati", perché si erano fatti uccidere. Agli occhi del presidente nessun principio vale l'onta della sconfitta, mentre il fine della vittoria giustifica ogni mezzo. È l'atteggiamento che lo portò a definire Putin "un genio", perché si era preso l'Ucraina semplicemente "entrandoci dentro". Il suo universo ideale è un mondo dominato da leader autoritari e accentratori, che fanno accordi tra loro parlandosi a quattr'occhi e lasciano che ognuno sbrighi come meglio crede le proprie faccende interne. Cani grossi che tra loro non si mordono, e pazienza se sbranano chi non ha la loro stazza. Trump considera il valore di un paese in base alla patina glamour che i suoi leader riescono a stenderci sopra. Sembra di capire che, secondo Trump, la ricchezza "penetra" dall'alto verso il basso, così in definitiva il vantaggio degli oligarchi andrà a beneficio dei cittadini tutti. Ammesso e non concesso che sia vero, bisogna chiedersi se valga la pena pagare il benessere con la democrazia.

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Federico Leoni