Dentro Gaza, tende ovunque: cosa vedono gli occhi dei volontari

Dopo quattordici mesi di conflitto la situazione a Gaza per la popolazione intrappolata nella Striscia è più grave che mai: è l’allarme dell’ong Cesvi che opera nel Paese da nove anni e che oggi è ancora sul campo per portare aiuti alle quasi 2 milioni di persone fuggite dalle proprie abitazioni che vivono senza le più basilari condizioni igienico sanitarie. Abbiamo raggiunto Giulio Cocchini, operatore umanitario dell’ong, che si trova a Deir al-Balah, al centro della Striscia, dove la maggior parte delle organizzazioni non governative e delle agenzie dell'ONU oggi hanno sede, per chiedergli di raccontarci la quotidianità di un contesto di guerra in cui gli attacchi dell’esercito israeliano continuano senza sosta e in diverse forme. Perché Deir al-Balah è diventato il quartier generale di tutti gli aiuti umanitari? È una zona sicura? Non è stata proprio una decisione. Avevamo un ufficio a Gaza City, in cui operavamo dal 2015, ma subito dopo il 7 ottobre una grande massa di persone e molte associazioni sono state evacuate a Rafah. Noi ci siamo spostati prima a Rafah dove abbiamo operato per un po’ di tempo e siamo andati a Deir al-Balah, seguendo gli sfollamenti massicci della popolazione. Ora siamo nel centro della striscia, nella cosiddetta “zona umanitaria”, dove molte ong e agenzie ONU operano. È una zona che dovrebbe essere relativamente sicura, ma continua a essere target di incursioni, bombardamenti, uccisioni mirate. Quindi sicura non lo è. Come Cesvi abbiamo una guest house, ma la risposta alla richiesta di "deconfliction", cioè la comunicazione delle coordinate per avere una garanzia che non sia bombardata, non è ancora arrivata, quindi al momento siamo ospiti in una struttura del CISS, un'altra ong italiana. In un comunicato recente avete dichiarato che “A Gaza non esistono più luoghi sicuri. I civili vengono uccisi e chi sopravvive versa in gravissime condizioni a causa della fame e della sete”. Com’è la situazione attorno al vostro quartier generale, dal suo punto di vista? La situazione è gravissima, sempre più grave e senza precedenti, almeno nelle crisi umanitarie recenti. Questo non lo dico io che ho un'esperienza umanitaria limitata, ma lo dicono tutti i colleghi che hanno visto le peggiori crisi umanitarie degli ultimi decenni. Perché è particolarmente grave? Per una questione di concentrazione delle persone in un'area molto limitata e impossibilità delle persone a spostarsi da quest'area. Spesso, quando ci sono le crisi umanitarie, ci sono grandi flussi di sfollati lontano da dove avviene il conflitto. Qua le persone non si potevano spostare prima e continuano a non potersi spostare adesso. La striscia di Gaza era già ultra densamente popolata, perché è già un fazzoletto di terra molto piccolo, ma in questo momento le incursioni da nord e da sud hanno schiacciato la stragrande maggioranza della popolazione in un'area che è grande il 13% della striscia stessa. L'altro elemento è un accesso alle forniture umanitarie estremamente limitato. Non a causa di difficoltà logistiche come succede durante un terremoto, per esempio, dove le strade sono distrutte. Qui l’ingresso degli aiuti è deliberatamente regolato dall'esercito israeliano per limitare l'accesso delle forniture umanitarie. Le procedure sono molto farraginose, finalizzate a ridurre l'accesso del numero di camion. Inoltre, il saccheggio di camion lungo il percorso è un problema. Tutti questi elementi si sommano alla crisi igienico-sanitaria, al numero di morti che è salito a 45mila, ai bambini rimasti orfani, al collasso totale del sistema sanitario, alla malnutrizione e all'insicurezza alimentare. Con l'arrivo dell'inverno, quali sono i rischi maggiori per la popolazione? L'inverno in realtà qui è già iniziato. Il problema sono le piogge intense, se arriveranno, che rischiano di inondare i campi dove risiedono oggi 800mila persone, perché i terreni su cui sorgono le tende sono facilmente inondabili, dal momento che la zona umanitaria è vicina al mare. I canali di scolo poi spesso sono invasi dai rifiuti, quindi sono otturati, le tende sono costruite con materiali artigianali, non impermeabili. Tutti questi elementi insieme rendono la probabilità di inondazioni molto alta. Noi, Cesvi, insieme ad altre organizzazioni, stiamo lavorando per ridurre questa probabilità svuotando i canali di scolo dai rifiuti, creando barriere con sacchi di sabbia e costruendo dighe rudimentali con sacchi di sabbia. Lo facciamo in 40 siti nella striscia, ma è una parte minima rispetto a quello di cui ci sarebbe bisogno. Inoltre, le latrine scavate nel terreno rischiano di contaminare tutto il terreno una volta che il livello dell'acqua sale. Questi sono i rischi che vediamo arrivare. Gli attacchi e i bombardamenti da parte dell’esercito israeliano sono ancora frequenti? Gli attacchi continuano in diverse forme: bombardamenti, incursioni di terra, attacchi mirati e saccheggi dei convogli umanitari. Gli operatori umanitari locali, specialmente lo staff palestinese, non sono considerati un deterrente per gli attacchi. Non posso dire che gli umanitari siano un target deliberato, ma non sono protetti. Inoltre, gli avvisi di evacuazione delle aree continuano a creare disordini e a peggiorare le condizioni per chi vive nelle zone colpite. Nelle zone più a nord, completamente inaccessibili, non sappiamo cosa succede. Rimangono molte zone sotto assedio totale. Quali sono le richieste più comuni che ricevete dalla popolazione? Quali sono i bisogni, ma anche i sogni, i desideri? La domanda è complicata, perché parliamo con tante persone diverse che hanno sentimenti molto diversi. Un elemento che posso dare è che l'intera popolazione di Gaza è traumatizzata da quello che è successo dal 7 ottobre ad oggi. Quasi tutti hanno perso parenti, amici, vicini. Poi ci sono i bambini che sono rimasti orfani, le persone che sono rimaste ferite o amputate. Hai intorno una popolazione che è per la totalità traumatizzata. I danni psicologici sono permanenti, con conseguenze enormi sui bambini che crescono in mezzo alle esplosioni, alle stragi. Su questo, però, c'è una sorprendente capacità di resilienza, se vogliamo usare questa parola. Le persone hanno dimostrato una volontà e una capacità di riorganizzarsi. La gente vive in un contesto drammatico, ma continua a portare avanti la propria vita. Ci sono i mercati, la gente va a fare la spesa, e ci sono attività economiche, spesso creative e improvvisate, a volte drammaticamente improvvisate. Esiste tutto un mercato del riuso dei materiali domestici, probabilmente saccheggiati o recuperati dalle macerie, che poi vengono rivenduti. C'è chi, come l'ex proprietario di un negozio da parrucchiere a Gaza City, sfollato qui, ha trovato una sedia da barbiere e uno specchio e si è messo a fare il parrucchiere sotto una tenda. C'è chi ha recuperato un pannello solare, lo ha collegato e ora vende la carica per i cellulari. C’è il proprietario di un ristorante di lusso che fa i panini in un chioschetto in mezzo alla strada, c'è un campetto da calcio qui vicino, dove i ragazzi si ritrovano e giocano a pallone. Queste sono piccole ma significative dimostrazioni di come le persone non abbiano rinunciato e non possano permettersi di farlo, perché l'alternativa è morire di fame. Si cerca un modo per mangiare, per sfamare la famiglia e, soprattutto, per continuare a vivere. Anche se la nostra libertà di movimento è fortemente limitata, cosa che non ci permette di capire a pieno la vita quotidiana nella striscia, vediamo questi segnali quando ci spostiamo e parlando coi colleghi e i partner: Tutto questo, pur non togliendo nulla alla drammaticità della situazione, dimostra in qualche modo la forza di volontà delle persone e la loro capacità di resistere. Il sentimento più diffuso, a mio avviso, non è la disperazione, ma una speranza tenace in un futuro migliore: una speranza forse un po' fatalista o ingenua, ma presente. Inshallah, questa guerra finirà, arriverà un cessate il fuoco e staremo meglio, sia dentro la Striscia che fuori. Com’è la situazione delle persone sfollate, dove sono oggi i gazawi scappati dalle loro abitazioni? Nella cosiddetta zona umanitaria, che comprende due governatorati di Gaza Middle – con località come Deir al-Balah, Zawahida, Nusrat e Khan Yunis – si trova la stragrande maggioranza della popolazione. Restano poi circa 350 mila persone a Gaza City. Immagina la Striscia completamente divisa in due: in realtà sono ormai due "strisce". C'è la parte sud e centrale, dove si trovano Gaza Middle e Khan Yunis, e la parte nord, con Jabalia – ormai praticamente vuota – e Gaza City. Queste due aree non comunicano tra loro: non passa niente o quasi niente. Non arrivano beni di prima necessità, non arrivano aiuti umanitari, e le persone non possono spostarsi. Chi è rimasto a Gaza City e al nord è sostanzialmente isolato. Pochi riescono a fuggire: si parla di qualche famiglia, forse una decina, ogni mese. Tutti gli altri si trovano all’estremo sud, a Rafah, che è diventata la nuova grande città, più vicina al muro e terreno di scontri costanti. Anche qui, però, restano ancora tante persone, che si spostano gradualmente verso questa zona umanitaria. Se mi chiedi cosa vedo intorno, vedo tende ovunque. Gli ospedali e le scuole sono stracolmi di centinaia, migliaia di sfollati. Chi non trova posto negli shelter o tra le macerie si è sistemato in tende. Parliamo di oltre un milione e 100mila persone concentrate solo in questa zona umanitaria, mentre la guerra prosegue senza tregua.

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