Un’emergenza arriva all'improvviso. Ma si deve risolvere subito ed efficacemente. Vale nelle crisi locali, ma soprattutto in eventi globali, come l’emergenza Coronavirus. Come fare per essere pronti? Abbiamo intervistato Leonard J. Marcus, Ph.D e Richard Serino del National Preparedness Leadership Initiative, joint program della Harvard T. H. Chan School of Public Health e Harvard Kennedy School of Government Center for Public Leadership. Ciò che serve ora? Secondo i due esperti un "linguaggio" comune tra i leader
Gli Stati Uniti sono uno dei paesi che ha sofferto di più, e ancora ora sta soffrendo l'emergenza Covid-19. Perché il Paese non è stato in grado di affrontare una crisi del genere, sin dall'inizio? Cosa è mancato?
Leonard J. Marcus, Ph.D. – Il primo elemento da sottolineare è che c’è una differenza abissale tra l’approccio a questa emergenza da parte dell’amministrazione Trump e quello dell’attuale esecutivo, guidato da Joe Biden. Il governo guidato da Donald Trump ha, sin dall’inizio, negato la portata e il raggio di questa pandemia. Inoltre, ha emesso ordini federali ma ha sempre lasciato l’applicazione ai singoli stati impedendo, così, di avere una strategia unica, a livello federale. Alcuni stati si sono immediatamente impegnati e hanno affrontato questa emergenza in modo molto serio (come il Massachusetts, dove si trova l’università di Harvard), altri invece sono stati più permissivi. Il risultato è stato un patchwork di politiche, diverse, in tutto il Paese.
L’amministrazione guidata da Joe Biden, seppur ancora molto giovane, è molto già molto attiva e sta già facendo molta prevenzione. Leggi per bloccare la diffusione del virus, per distribuire i vaccini nel modo più efficiente possibile sono soltanto i primi passi del nuovo esecutivo che, però, già ci permettono di vedere dei cambiamenti. Il Presidente ha emesso anche l’obbligo di mascherina in tutti i trasporti pubblici e non solo, dai treni agli aerei, ma anche autobus, per almeno 100 giorni. La pandemia, ora, viene affrontata in maniera completamente diversa. E sono sicuro che questo nuovo approccio avrà un impatto importante su tutta la popolazione.
Richard Serino – Quello che vediamo oggi, con l’arrivo dell’amministrazione Biden, è il cosiddetto “Whole Community Approach”, ovvero riuscire ad unire il governo federale, a quelli statali e locali, per procedere in un’unica direzione. Ma anche la possibilità di legare queste realtà più statali al mondo non profit, come per esempio la Croce Rossa e il mondo accademico. Soltanto l’unione di questi mondi così diversi può aiutare le persone a capire l’importanza del vaccino, anche chi non crede in questa cura può comprenderne l'essenzialità. Soltanto unendo le forze, ed è quello che sta già accadendo con questo nuovo esecutivo, si potrà vedere la fine di questa pandemia, magari entro la fine di quest’anno.
Adesso abbiamo i vaccini. Il piano del presidente Biden è molto ambizioso: 300 milioni di americani vaccinati entro la fine dell’estate, al più tardi all'inizio dell'autunno. È un piano affidabile?
Leonard J. Marcus, Ph.D. – L’amministrazione Biden sta affrontando tutti i risvolti di questa emergenza, soprattutto per quanto riguarda l’acquisto e la distribuzione dei vaccini. Quello che abbiamo capito è che l’infrastruttura alla base di tutto il processo non era stata creata dal precedente esecutivo: questo significa che l’attuale governo ha dovuto realizzarla in primis, per poi procedere con tutto il resto. Tutto si sta svolgendo molto velocemente. Sono comunque ottimista in merito al piano del Presidente Biden e ai numeri che vuole raggiungere. Dobbiamo solo aspettare. Uno degli aspetti più importanti sarà l’approvazione di nuovi vaccini, come per esempio quello di Johnson&Johnson, che non necessita le stesse basse temperature di Moderna e Pfizer e ha una sola dose. Tutti questi fattore mi fanno pensare che l’amministrazione Biden sarà in grado di raggiungere i suoi obiettivi.
Richard Serino – Nel contesto di questa campagna vaccinale “aggressiva” (molto forte perché servirà a vaccinare 300 milioni di americani entro l’estate) è bene sottolineare due aspetti: il primo relativo alla quantità di dosi disponibili (se ci saranno o meno), il secondo riguarda le persone che accetteranno il vaccino stesso. Nel paese ci sono molte disparità sociali e, in questa fase della pandemia, è giusto che tutti siano informati allo stesso modo. Per fare questo è fondamentale avere un approccio a più livelli. La FEMA sta guidando questo processo: delle squadre ad hoc sono state mandate sul campo, sono stati inviati fondi economici agli stati e alle città per attivare spazi adeguati per effettuare le vaccinazioni. Ma si sta anche trasmettendo il messaggio che il vaccino è sicuro. Nel momento in cui la gente vedrà sempre più persone vaccinarsi, sempre più uomini e donne lo vorranno fare. E anche quando i numeri dei ricoveri ospedalieri saranno diminuiti, la gente capirà quanto è importante ricevere il vaccino. Questo processo può essere di insegnamento per tutti gli americani, ma anche per il resto del mondo: ricordiamoci sempre che questa è una pandemia globale. Dobbiamo e possiamo imparare gli uni dagli altri.
Quello che probabilmente è mancato durante questa pandemia, è un linguaggio comune tra i leader del mondo. Credete sia possibile riabilitarne uno per far dialogare i leader del mondo?
Leonard J. Marcus, Ph.D. – Nel nostro corso ad Harvard “National Preparedness Leadership Initiative” facciamo delle ricerche sui leader nei momenti di crisi. Quello che abbiamo riscontrato è che le persone migliori sono quelle che vedono le situazioni ad ampio spettro e comprendono la complessità di ciò che sta accadendo. Grazie a questo modus operandi mettono in atto delle abitudini e la leadership necessaria per affrontare il problema che si pone. Noi diamo loro questi elementi per comprendere la situazione da affrontare e i collegamenti necessari
Richard Serino –La preparazione che diamo in questo corso di studi non è soltanto a livello nazionale, ma soprattutto internazionale. In una fase come questa, l’interrogativo a cui dobbiamo rispondere è: come possiamo lavorare insieme per porre fine a questa pandemia? È fondamentale lavorare da soli ma anche in gruppo, mettere da parte il proprio ego e procedere tutti nella stessa direzione, per un obiettivo comune. Dovremo affrontare la pandemia ancora a lungo, quindi un unico linguaggio (che è quello che cerchiamo di insegnare ai nostri studenti) è pressoché essenziale.
Non sai mai quando si verifica una crisi / emergenza. Per essere preparati a eventi come questi, cosa possono fare i leader emergenti?
Leonard J. Marcus, Ph.D. – Nel momento in cui c’è un’emergenza, la persona che in quel momento ha più qualità tecniche diventa il leader, proprio perché può affrontare al meglio la problematica che si è presentata. Quello che abbiamo compreso è che una qualità, una conoscenza diversa può fare la differenza. Uno degli aspetti più interessanti del nostro corso, National Preparedness Leadership Initiative, è unire persone dai background differenti. Dalla medicina all’esercito, passando per chi ha gestito emergenze internazionali all’intelligence: vedere queste figure apprendere l’una dall’altra è importantissimo. Noi cerchiamo di dare una “cassetta degli attrezzi” ai nostri studenti: questi strumenti saranno utili nel momento in cui bisognerà essere i leader nella gestione di una nuova, possibile emergenza.
Richard Serino – C’è un aspetto che unisce i nuovi leader, chi lo vuole diventare ma anche chi lo è da anni: la leadership è un viaggio, non si deve mai smettere di imparare. Anch’io, alcuni anni fa, ho seguito il National Preparedness Leadership Initiative, non soltanto per le materie di studio ma anche per la rete di contatti, in molte discipline, che mi ha consentito di creare. Non solo a Boston o negli Stati Uniti, ma in tutto il mondo. E in un’emergenza, si può sempre sentire un collega e condividere idee, opportunità.
In molti dicono “leader si nasce, non si diventa”. Io non sono nato leader, ma ho ricevuto degli insegnamenti che mi hanno permesso di diventarlo.
Leonard J. Marcus, Ph.D. – Richard stesso è stato un nostro studente e, molto generosamente, ci ha permesso di studiare ciò che faceva sul campo. È stato lui ad attuare immediatamente il piano di emergenza alla maratona di Boston nel 2013, quando esplosero due bombe e tre persone morirono sul colpo. 264 persone ferite sono state salvate grazie a quanto fatto dal team guidato da Richard. Cerchiamo di incorporare lo studio all’esperienza concreta, sul campo. In un periodo storico come questo è fondamentale avere studenti in tutto il mondo, proprio perché si possono scambiare conoscenze, idee, condividere progetti istantaneamente. E formare leader sempre più internazionali e pronti ad affrontare, in maniera efficace, le crisi che arriveranno.