Detenuti ammassati nelle celle per mesi, in pessime condizioni igienico-sanitarie e con pochissimi contatti con l'esterno. Le prigioni del Paese sudamericano sono state sempre inaccessibili, ma il corrispondente Stuart Ramsay è riuscito a entrarci
Chiusi in un edificio praticamente anonimo nel centro di Caracas, non sanno che in tutto il mondo è scoppiata la pandemia di Coronavirus (GLI AGGIORNAMENTI - LO SPECIALE). Sono i detenuti del Centro de Reclusión Simón Bolívar, un carcere venezuelano di alta sicurezza dove Sky News - nell’ambito di un reportage esclusivo sulle prigioni del Paese, molto violente e spesso controllate dalle gang - è riuscita ad accedere con il corrispondente Stuart Ramsay, nonostante nessun esterno fosse mai stato fatto entrare nella struttura. Qui viene portata una categoria specifica di carcerati: gli stranieri.
Un sistema carcerario al collasso
Nel Centro de Reclusión Simón Bolívar i prigionieri stranieri sono quasi tutti trafficanti di droga condannati e partecipano ad attività definite “educative”, che altro non sono che una sorta di lavaggio del cervello istituzionalizzato: marciano insieme con gesti ben precisi, mentre intonano cori elogiando la rivoluzione di Hugo Chavez. Non sono rituali obbligatori, ma se i detenuti non si adeguano non ricevono i “crediti” di buona condotta per le loro condanne. Non è la peggior prigione dell’America Latina, ma le persone non hanno contatti con il mondo esterno. Passano ore in celle molto piccole e il fatto che si trovino in un Paese dove la gente non ha da mangiare, le forniture mediche scarseggiano e i diritti umani vengono regolarmente violati, comporta che siano estremamente vulnerabili. Il sistema carcerario, come tutto il resto in Venezuela, rischia di crollare a pezzi con loro dentro.
Le testimonianze dei detenuti
Sky News è riuscita anche a parlare con alcuni detenuti. Tra loro c’è Salvatore Cirelli, di origine italiana da parte di padre: viene da Southampton e sta scontando 13 anni per traffico di cocaina. Ha spiegato di aver trafficato numerose volte cercando di mettere insieme i soldi per tornare nel Regno Unito: “A causa della situazione del Paese siamo rimasti al verde per cui ho deciso di fare questa cosa… per avere più soldi per poter tornare in Inghilterra, perché non avevamo abbastanza soldi per andare e per sopravvivere in Inghilterra, quindi dovevamo vendere le case qui, le macchine e tutto il resto per tornare in Europa”. Originario del Regno Unito è anche John Twell, che nella stanza della cultura, praticamente una biblioteca, gestisce i libri della prigione. Originario di Spalding, il 58enne sta scontando 15 anni perché è stato fermato con 31 chili di cocaina all'aeroporto. Come per la maggior parte dei prigionieri ogni forma di sconforto è scomparsa da tempo: “Dopo che sei stato in prigione per 8 anni e mezzo non c’è ragione di piangere, perché dovrei piangere?”
Sospese le richieste di rimpatrio
Al momento, anche a causa della pandemia, le richieste di rimpatrio risultano sospese. Come nel caso di Alexis Sanchez, originario del New Jersey, negli Stati Uniti. Un uomo nella sua stanza dell'ostello trasportava droga - ma sostiene che non era lui. Ora sta scontando 17 anni per spaccio e vuole essere rimpatriato negli Stati Uniti, ma considerati i rapporti tra Usa e Venezuela ai minimi storici sa che il suo caso non è una priorità. “Forse a causa della mia nazionalità non approvano la mia richiesta di rimpatrio - dice - Questa è solo la mia opinione e non un dato di fatto, ma sappiamo che questo tipo di cose succedono di tanto in tanto nella politica".
Il reportage di Sky News nelle prigioni venezuelane
Stuart Ramsay, chief correspondent di Sky News in Venezuela, dopo mesi di contrattazione con la polizia locale è riuscito a entrare in alcune prigioni del Paese. Da Caracas a Valencia, le telecamere di Sky News sono entrate nelle celle sovraffollate, hanno mostrato le condizioni in cui vivono i detenuti parlando direttamente con alcuni di loro, oltre che con chi li sorveglia ogni giorno e notte.