Le violazioni avvengono non solo nei paesi sotto il giogo di regimi illiberali, ma anche in Europa. In Ungheria, l’attuale pandemia sta servendo come ulteriore bavaglio al premier Viktor Orban
Trentuno anni fa la strage di piazza Tienanmen: il numero esatto degli studenti cinesi ammazzati dal regime mentre protestavano pacificamente resta ancora indefinito e probabilmente non si saprà mai. Oggi centinaia di migliaia di americani scendono in piazza, incuranti del distanziamento sociale che la pandemia imporrebbe, per manifestare contro l’ennesima uccisione di un afroamericano, George Floyd, da parte di un agente di polizia bianco.
Tra questi due episodi della storia recente – ma inutile dire che si potrebbe partire dalla notte dei tempi – una costellazione di piccole e grandi, enormi violazioni dei diritti umani nel mondo. Violazioni che avvengono non solo nei paesi sotto il gioco di regimi illiberali (Cina, Iran, Russia) ma anche nella civilissima Europa e in seno alla democrazia più vecchia del nostro pianeta, gli Stati Uniti, fondati, come ricordava uno dei suoi più grandi intellettuali, lo scrittore e sociologo W. E. B. Du Bois , sulla cosiddetta “linea del colore”.
Il rapporto annuale
Per questo è indispensabile parlare di diritti umani: perché riguardano davvero tutti e nessuno può darli per scontati. Amnesty International, nel giorno di un drammatico anniversario come quello di Tienanmen, ha presentato il suo rapporto annuale: una fotografia puntuale, basata su report stilati sul campo, della situazione nel mondo.
Nel 2019 metà della popolazione di Hong Kong è scesa in piazza a protestare: la stessa a cui quest’anno verrà concesso di ricordare la strage del 4 giugno 1989 con una fiaccolata digitale. Un anniversario che cade nel giorno in cui il Parlamento locale approva definitivamente la legge sul vilipendio dell’inno e della bandiera cinese: un altro colpo assestato alla libertà di Hong Kong, in un processo di normalizzazione che sta terremotando, prima del previsto, quanto sancito dalla Basic Law: un paese, due sistemi. Almeno 7.800, stima Amnesty, i manifestanti che sono stati arrestati. Molto peggio è andata in altri Paesi, come in Cile, dove 13 mila persone sono rimaste ferite e almeno 31 hanno perso la vita mentre chiedevano migliori condizioni di vita. In 37 sono morti nel Venezuela dei due presidenti e in 42 in Nicaragua. La deposizione del direttore Omar al Bashir, per 30 anni alla guida del Sudan, è costato il sangue di almeno 177 manifestanti.
La repressione del dissenso
Esprimere il proprio dissenso pubblicamente, in quei regimi che come colonna sonora hanno il silenzio, non è tollerato. In Egitto si sono verificati qualcosa come 4mila arresti, in Iraq ci sono stati 500 morti, 304 in Iran. Anche il 2019 si è confermato poi un anno terribile per la libertà di stampa in Turchia: la nazione col più alto numero di giornalisti in carcere. La Turchia è anche l’unico Paese al mondo in cui l’ex presidente e l’ex direttrice della sezione locale di Amnesty si trovano sotto processo
Almeno 64 Paesi al mondo, denuncia ancora l’organizzazione, praticano la tortura, e in almeno 32 avvengono le sparizioni forzate. Oltre un migliaio sono state le condanne a morte eseguite in Cina.
Ma la violazione dei diritti umani, lo abbiamo detto subito, riguarda anche l’Europa. In particolare, preoccupa la situazione in Polonia e Ungheria, Paesi di quell’Unione Europea che troppo timidamente ricorda ai due membri i valori sui quali è stata fondata. Come abbiamo ricordato in un recente servizio, l’attuale Pandemia sta servendo come ulteriore bavaglio anche al premier Viktor Orban. In Italia ha provocato anche una reazione da parte dell’Onu l’avvenuta criminalizzazione, nella prima parte del 2019, delle Ong che si sono occupate del recupero di migranti in mare.