Babij Jar, storia del massacro di cui per anni non si è potuto parlare

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Filippo Maria Battaglia

(Credits: Getty Images)

A Kiev il 29 e il 30 settembre 1941 vennero uccisi dai nazisti più di 30mila ebrei. Per ordine di Mosca su quella strage calò il silenzio per decenni. Ora un romanzo-documento ne rievoca la vicenda

Un burrone enorme, “si potrebbe perfino dire grandioso, profondo e ampio come una gola di montagna”. Il 19 settembre 1941, quando i tedeschi entrano a Kiev, Babij Jar si presenta così. Circondato da cimiteri, piccoli boschi e orti, è conosciuto dagli abitanti della città e da pochi, pochissimi altri. Dieci giorni dopo sarà il luogo di uno dei massacri più gravi della storia. Quell’eccidio è al centro di uno straordinario libro di Anatolij Kuznecov intitolato semplicemente “Babij Jar” e ora pubblicato per la prima volta in Italia a quasi cinquant’anni dalla sua comparsa in edizione integrale (Adelphi, trad. E. Guercetti, pp. 454, euro 22).

L’invasione nazista

Sono le prime ore del 19 settembre 1941 quando le truppe naziste entrano a Kiev. Occupano gli edifici vuoti del quartiere centrale della città abbandonati poco prima dai sovietici e lo fanno senza sparare un colpo. Più che un’occupazione – racconta Kuznecov – somiglia a “una colossale e disorganizzata parata militare, piena di ingorghi, confusione e disordine”. Passano poco meno di cinque giorni e il quartier generale tedesco, letteralmente, esplode. Prima salta in aria la sede del comando tedesco, poi i caffè, il cinema, le mercerie. In poche ore, della zona più centrale ed esclusiva della città, restano sono solo cumuli e macerie. A provocare le esplosioni è la Čeka, la polizia politica sovietica. L’obiettivo di Stalin non è solo militare. Prima di essere invasa dai nazisti, l’Ucraina è stata ridotta letteralmente alla fame da Mosca. In quella scelta, nota Kuznecov, c’è quindi anche “una finalità più sinistra: esasperare i tedeschi, affinché, inferociti, si togliessero i guanti bianchi nel trattare la popolazione”. Non è un scopo difficile da raggiungere. Il 28 settembre, sulle strade della città, appare un manifesto grigio stampato su una carta di scarsa qualità. È una convocazione, ma non ha titolo né firma. Intima, pena la fucilazione, “a tutti i giudei della città di Kiev e dei suoi dintorni di presentarsi lunedì 29 settembre 1941 alle 8 del mattino” in un via vicino al cimitero, con denaro e oggetti di valore. Kuznecov, l’autore di questo libro, è un ragazzino e non vuole perdersi per niente al mondo quel tetro spettacolo: “Capite, in tempi normali gli storpi di ogni specie, i malati e i vecchi se ne stanno a casa, non si vedono. Ma qui dovevano uscire tutti – e uscirono anche loro”. Migliaia di ebrei vengono così accalcati, fatti spogliare, stipati in grossi camion e trasferiti verso il burrone.

Il massacro

Da qui in avanti, Kuznecov non può più raccontare: ha rischiato di pagare grosso la sua curiosità infantile e solo per un soffio si è salvato dai rastrellamenti. Per descrivere ciò che accade, si affida così alla testimonianza di un’attrice di Kiev, Dina, miracolosamente sopravvissuta alla strage. Accanto al cimitero, nel luogo di raccolta, ci sono donne, bambini, anziani. “Fra gli altri, ruzzolò fuori una vecchietta che si mise subito a urinare davanti alla porta. Un tedesco urlò e le sparò un colpo in testa”. Un’anziana corre, seguita da un bambino di cinque o sei anni, che grida: “Nonna, ho paura!”. La donna prova a calmarlo, ma non fa in tempo: arrivano due soldati tedeschi e li ammazzano. “Più tardi, sei o sette tedeschi condussero due giovani donne passando sull’altro versante del burrone. Scesero un po’ più in basso, trovarono uno spiazzo, e a turno le stuprarono. Quando furono soddisfatti, le pugnalarono, così repentinamente che le donne non gettarono neppure un grido – e i cadaveri li lasciarono lì, nudi, con le gambe aperte”. Donne e uomini nudi, intanto, vengono allineati in file da dieci, ai margini del burrone, e predisposti in modo che le raffiche di mitra possano uccidere più persone possibile. In una manciata di ore muoiono in migliaia. A un certo punto tocca anche a Dina, che però, appena la mitragliatrice inizia a sparare, con un rapido riflesso si getta nel fossato e non viene colpita. È solo contusa: l’impatto della caduta è attutito dal fitto tappeto di sangue e corpi. Gli occhi chiusi, immobile, Dina intorno a sé sente “suoni viscerali, gemiti, singulti, pianti: molti non erano morti sul colpo”. Non è la sola ad accorgersene. Un gruppo di soldati scende nel burrone e, come accaduto dopo le raffiche precedente, spara a chi emette un gemito. Dina trattiene il respiro perché, racconta, occorre apparire morti per avere qualche speranza di sopravvivere. Un soldato le passa a canto, le calpesta la mano, la colpisce al petto con lo stivale, poi passa avanti. Lei resta immobile anche quando la sabbia utilizzata per nascondere i corpi le copre la bocca. Poi, quando sta per soffocare, annaspa “in preda a un terrore selvaggio, pronta a essere uccisa piuttosto che sepolta viva” e raggiunge la parete laterale del burrone. Sarà una delle pochissime a salvarsi. In due giorni, a Babij Jar, moriranno poco meno di 34mila persone.

Una storia che doveva essere dimenticata

Il libro di Kuznecov non rievoca solo l’eccidio. È uno straordinario e vividissimo affresco di un Paese stretto prima dalla morsa sovietica e poi da quella nazista. È il racconto della fame, della miseria, di una cocciuta e disperata lotta per sopravvivere. “Un romanzo-documento”, lo definisce il suo autore, ed insieme un libro che si fa carico di un’altra incredibile storia: quella dell’oblio, della censura e della dannazione di questa storia. Alla fine della seconda guerra mondiale e col ritorno al totalitarismo comunista, gli abitanti di Kiev sopravvissuti saranno considerati da Mosca “merce di terza scelta”. Persino i prigionieri di guerra sopravvissuti ai lager tedeschi verranno “automaticamente dirottati in quelli della Siberia, in quanto traditori che si erano arresi al nemico invece di combattere fino alla morte”. Il diktat sovietico è netto: Babij Jar deve sparire dalla memoria. Ed è un diktat che sopravvive anche agli anni della destalinizzazione, quando con Nikita Chruščëv il regime pare riabilitare alcuni scrittori e avviare una strumentale autocritica sugli anni precedenti. 

La censura del libro

Nell’introduzione al romanzo l'autore racconta la vicenda editoriale che porta alla pubblicazione del libro in Unione sovietica: i tagli grotteschi della censura, i dialoghi surreali con i censori, fino alla fuga in Occidente e alla pubblicazione del romanzo nell’edizione integrale. Un’odissea che lo spingerà a concludere: “Credo che nessun crimine collettivo possa restare segreto. Si troverà sempre qualche zia Maša che ha visto, o si salveranno quindici persone che testimonieranno, o forse due, o magari una sola. Si può bruciare, disperdere al vento, ricoprire di terra, calpestare – ma la memoria umana sopravvive. Non si può ingannare la storia, ed è impossibile nascondere qualcosa per sempre”.

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