Libia, quella protezione civile che agisce in rete

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Le tensioni in Nord Africa raccontate con una mappa.
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C’è un disastro? Tra i primi a intervenire i volontari della Stand-By Task Force, che in poche ore realizzano mappe online per la raccolta di informazioni e per il coordinamento degli aiuti. L'ultimo progetto, targato Onu, riguarda la crisi libica

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di Raffaele Mastrolonardo


La richiesta di intervento è arrivata nella tarda mattinata del primo marzo. Il committente era di quelli importanti, l'Ufficio per il coordinamento degli affari umanitari dell'Onu (OCHA), che aveva bisogno di uno strumento per gestire meglio il proprio personale sul campo in Libia. Una riunione tra i fondatori per capire come procedere, il tempo di un piano di lavoro e alle ore 14 le squadre di intervento composte di volontari sparsi in tutto il mondo erano attivate. Quattro ore ancora e la Libya Crisis Map, mappa che monitora e geolocalizza informazioni su quanto avviene nel Paese nordafricano, era online a disposizione delle Nazioni Unite (dal 4 marzo è diventata visibile a tutti anche se non in versione integrale).

La Stand By Task Force, gruppo che utilizza i media sociali e le mappe online a supporto degli aiuti in caso di disastri ed emergenze, lavora così. In velocità, con efficienza e ricorrendo a tecnologie open source come Ushahidi, la piattaforma software di origine africana che si è imposta in tutto il mondo come riferimento per progetti di questo tipo. Nata nell'ottobre 2010, questa sorta di protezione civile internazionale e virtuale ha già dato buona prova di sé in occasione del referendum in Sudan, del ciclone Yasi in Australia e del recente terremoto che ha colpito la Nuova Zelanda. Ora, con l'imprimatur dell'Onu, affronta la crisi libica. 

Il risultato, anche in questo caso, è una mappa che conta, fino ad ora, oltre 500 rapporti raccolti da media internazionali, locali e fonti dal basso come Twitter. Le notizie sono piazzate sulla cartina digitale della Libia, verificate quando è possibile, e riguardano ambiti come i profughi, gli interventi umanitari e anche episodi di violenza. La loro dislocazione su una mappa e l'analisi contenuta nei periodici rapporti realizzati dal gruppo permettono alle Nazioni Unite di gestire con maggiore efficienza le forze sul territorio.

“Il vero vantaggio della piattaforma – ci spiega Anahi Ayala Iacucci, nome esotico ma cittadinanza italiana, tra i fondatori della Stand By Task Force – è che le informazioni sono categorizzate e geolocalizzate e dunque diventano utili per chi deve intervenire”. L'Onu in questo caso, ma anche la commissione elettorale che in Sudan monitorava lo svolgimento del referendum che ha deciso dell'indipendenza del Sud del Paese all'inizio di quest'anno. “Ci muoviamo – aggiunge - solo quando ce lo richiede un'organizzazione presente sul territorio e mettiamo le nostre risorse tecnologiche e umane al suo servizio: la piattaforma deve servire concretamente a qualcuno”.

Anahi è nata trent'anni fa a Brescia da mamma italiana, papà rifugiato politico uruguayano e nonna indigena guaranì del Paraguay a cui deve il nome che – precisa - si pronuncia con l'accento sulla “i” finale. Si è laureata in Italia, ha frequentato un Master alla Columbia University di New York e ora risiede a Washington, dove studia presso la Banca Mondiale l'impiego di nuove tecnologie in casi di disastri. Il suo profilo cosmopolita rispecchia la natura globale del progetto e della sua comunità. A guidarlo, insieme a lei, ci sono programmatori cechi, esperti di sicurezza informatica americani, analisti spagnoli. Anche i volontari appartengono alle nazionalità più varie anche se con una netta prevalenza di statunitensi ed europei. Nel caso della Libia, gli utenti che si sono attivati sono circa 70, tra questi un paio di ragazze italiane. Dal punto di vista dell'organizzazione, indispensabile per una macchina chiamata ad agire così in fretta, gli operatori digitali sono divisi in dieci squadre che si attivano via e-mail (“ma se uno non risponde c'è anche il vecchio telefono”) e si coordinano via Skype. Ciascuna unità ha un compito specifico, dalla raccolta delle informazioni alla loro verifica fino alla stesura dei rapporti di sintesi. “Ci sono quattro coordinatori per ogni squadra – racconta Iacucci - e il mio compito è supervisionarli. Il lavoro duro è nei primi giorni poi la macchina procede quasi da sola”.

Stand By Task Force è nata dall'esigenza di dare una struttura più stabile agli sforzi dei volontari che hanno accompagnato la crescita dell'esperienza di Ushahidi, il software di origine africana, che nel tempo è servito a dare supporto a situazioni come le inondazioni in Pakistan, il terremoto in Cile, gli incendi in Russia e, persino, le tormente di neve a Washington. “Ci siamo dati una struttura e dei protocolli in modo da non dover cominciare da zero ogni volta”. La missione di questa pacifica armata digitale è intervenire quando serve e per il tempo che serve: “Difficilmente agiamo per più di 2-3 settimane. L'obiettivo è che la comunità locale sia in grado di usare lo strumento da sola”.

La maggiore organizzazione non ha cambiato la natura no profit e solidale dell'idea. L'attività della Stand By Task Force continua ad essere fatta senza risorse che non siano il tempo e la buona volontà dei partecipanti. Nessuno, tra i sei fondatori e gli oltre 200 utenti che partecipano alle attività, riceve una lira per quello che fa. “Non accettiamo soldi da nessuno”, spiega Anahi. “Visto che coinvolgiamo dei volontari ci sembra giusto che anche i coordinatori non siano pagati. E poi ogni volta che c'è passaggio di denaro ci possono essere anche polemiche...”.

Tutto gratis, dunque, e tutto frutto di quell'altruismo a cui la rete ha aperto nuove strade. Anche se un dono da qualche benefattore la truppa del pronto intervento via Web lo accetterebbe: un server. “Quello sì che sarebbe il benvenuto visto che l'attuale lo paghiamo di tasca nostra”.

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