IoGero e vi racconto storie: la quotidianità finisce in un libro sulle ali della fantasia

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Gero Guagliardo

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La casa editrice Nuova Ipsa editore pubblica un libro di racconti firmato da Gero Guagliardo e intitolato "IoGero e vi racconto storie". Per gentile concessione dell'editore ne pubblichiamo uno, dedicato a "Vito Acciaio Inox”

Nel quartiere tutti lo chiamavano Robocop, per via di quel vassoio d’acciaio che, a quanto pare, nascondeva sotto la maglia. Storia vera? Storia finta? Boh.

Un’abitudine inculcatagli dal padre per difendersi dalle pallottole che quei codardi stranieri avrebbero potuto sparargli pur di impossessarsi dell’incasso giornaliero. Aveva tredici anni la prima volta che indossò quel vassoio. La scuola era finita da un giorno e Vito era stato promosso col massimo dei voti.

Il mattino successivo suo padre lo svegliò alle 5 in punto: “Vito, sveglia, ti meriti un premio”. Si ritrovò per strada, mezzo addormentato, e non capiva se quella foschia sul pelo dell’acqua del Naviglio c’era davvero o fosse soltanto una questione di sonno. Tirata su la cler, entrarono nel Bar dove il buio ancora dormiva. Rosario, il padre di Vito, si tuffò nel mezzo di quel buio dentro il quale nuotava a memoria.

 

Vito, approfittando del buio, pensò di non essersi mai svegliato e richiuse gli occhi. Ma niente da fare. All’improvviso tutti i neon del bar cominciarono a balbettare un po’ di luce fino ad accendersi completamente.

Solo quello dietro i whisky continuava a spegnersi e a riaccendersi, ma Rosario non lo voleva riparare perché, secondo lui, attirava di più l’attenzione degli appassionati. Ed effettivamente da quando era un po’ guasto, aveva cominciato a vendere più whisky. Ecco intanto Rosario tornare dal ripostiglio con un grembiule nella mano destra e un vassoio di acciaio inox sotto al braccio sinistro.

Intercetta lo sguardo del figlio e lo invita a sedersi su uno dei due sgabelli dove si siedono i clienti solitamente. “Vito, sei stato promosso al primo anno delle superiori. Questo vuol dire che non ho un figlio scemo. Bene. Si fottano gli altri 4 anni, da domani si lavora al Bar”.

 

Vito, a questo punto, era convinto: si tratta ufficialmente di un incubo. Aveva altri programmi lui: godersi le meritate vacanze per poi ricominciare a studiare, diplomarsi, laurearsi e dopo ancora andare nella Silicon Valley.

“Tre cose prima di cominciare” riprese a parlare Rosario interrompendo i pensieri del figlio. “Questo è il tuo grembiule. Lo devi trattare con rispetto, tienilo sempre pulito. E questo è il tuo giubbotto antiproiettili. Quei codardi stranieri son capaci di riempirti di pallottole per i pochi spiccioli della cassa. Se ti becco anche un solo giorno senza questo, prendo il coltello grande dalla cucina e te lo infilzo sul petto. Adesso puoi cominciare”. “E la terza cosa?” chiese Vito al padre che era andato a scaldare la macchina dei caffè. “Nessuno straniero dovrà mai lavorare in questo Bar. Nessuno”. “Perché?” chiese Vito.

“Nessuno” fu la NON risposta.

 

Vito, in meno di un’ora, si ritrovò dal letto, dove stavano per cominciare le sue vacanze, al bancone del Bar di suo padre, dove avrebbe trascorso il resto della sua vita. L’estate volò senza che Vito se ne accorgesse e così anche l’autunno e i primi anni. Vito si accorse di non avere più tredici anni, ma di averne venti, soltanto il giorno in cui suo padre Rosario morì d’infarto. Proprio dentro al Bar, davanti ai suoi occhi. A metà funerale, uscì dalla chiesa e andò a riaprire il Bar. Suo padre aveva voluto che la sua vita fosse il Bar? E Bar sia! Negli ultimi sette anni Vito era diventato il ragazzo e l’adulto che mai ci si sarebbe aspettati.

Da bimbo sorridente e gentile si era trasformato in adulto schivo, per niente gentile e sempre incazzato. Era come se l’acciaio inox che gli ricopriva il petto si fosse piano piano esteso a tutto il suo corpo, creandogli un’armatura di indifferenza e cattiveria. Non salutava i suoi clienti e nemmeno gli importava se i suoi caffè, le sue brioches o i suoi pranzi (panini, piadine e insalatone preconfezionate) fosseroapprezzati o meno. Tanto era l’unico bar vicino al palazzone degli uffici. I veri clienti erano soltanto due. Benito, settantaquattro anni, cieco e per questo soprannominato Radar. Viveva al primo piano sopra il Bar e tutti i pomeriggi scendeva giù tra le 17 e le 19 per sorseggiare i suoi bicchierini di Braulio. Anche d’estate.

 

E poi c’era Fabrizio, venticinque anni, 165 chilogrammi di follia. Era soprannominato Mosè, perché ogni tanto impazziva, correva sul ponte del Naviglio e gettandosi a bombazza apriva le acque. Poi tornava di corsa dentro al Bar per asciugarsi e ricomporsi. Anche d’inverno.

Questo era il mondo di Vito. Immaginate una palla di vetro, come quelle dei souvenir, con dentro un vassoio, un bar, Benito e Fabrizio. Immaginate adesso questa palla di vetro che all’improvviso comincia a creparsi perché nel Bar entra una donna con una pistola. Vito sta svuotando la lavastoviglie come fa sempre prima di chiudere, quando sente la porta aprirsi. Benito è già andato via per oggi e quindi non può che essere Fabrizio di ritorno da uno dei suoi soliti tuffi.

 

È convinto di ritrovarselo davanti completamente bagnato e invece si ritrova con una pistola puntata all’altezza del petto. La donna gli chiede l’incasso del giorno. Lui guarda la foto di suo padre Rosario esposta insieme ai whisky da quando è morto. La luce del neon continua a non funzionare bene, e questo sfarfallio sembra quasi far muovere le labbra del defunto: “Ti avevo detto tutto” è convinto di leggere Vito sulle labbra di suo padre. Vito allora allunga le mani verso la cassa, tira fuori il cassetto e lo consegna alla rapinatrice. “Prendi”. 

 

La donna comincia a raccogliere le banconote e poi le monete di taglio più grosso. “Soltanto una domanda: perché sei uno straniero?” La donna tiene lo sguardo sempre puntato verso il basso e continuando a raccogliere il denaro risponde: “Straniero? Sono una donna, italiana, sono di Milano”. Vito si gira di colpo verso la foto del padre. “Scusa, ho sbagliato tutto” adesso gli pare di leggere sul labiale del morto. “Cosa?” chiede Vito parlando in direzione della foto. “Scusa, ho sbagliato tutto”. Le labbra del padre dicono proprio questo. E Vito vorrebbe mandarlo a quel paese per la prima volta in vita sua, ma si rende conto che sta parlando con la foto di un morto e poi si ricorda di avere una pistola puntata addosso. Torna quindi a guardare di fronte a lui e la donna adesso non sta più raccattando il denaro perché anche lei si è distratta vedendo la scena di un barista che parla con la foto di un morto esposta vicino ai whisky. Vito adesso li vede quegli occhi color ghiaccio della donna e crede di non aver mai visto due occhi come quelli. Subito dopo li guarda per bene e se ne convince. Mai visti.

 

La temperatura di fusione dell’acciaio inox è di 1435 °C, eppure Vito ha la sensazione che la sua armatura stia cominciando lentamente a sciogliersi di fronte allo sguardo di quella donna. In realtà, servirebbero dei forni giganti e una discreta quantità di ore per portare a fusione quella mole di acciaio inox che ricopre Vito, ma l’amore è una scienza inesatta e bastano pochi secondi a Vito e alla donna rapinatrice dagli occhi di acciaio per raddrizzare le proprie vite.Se questa sera andate a fare un aperitivo sui Navigli, provate a cercare il Bar di cui parlo. Benito, nelle giornate di sole, sta ancora seduto fuori a sorseggiare il suo Braulio. Lui è cieco ma tende comunque a guardarvi dalla testa ai piedi mentre vi accomodate.

Fabrizio adesso serve ai tavoli, è puntuale e gentile ma ogni tanto potrebbe schizzare via in direzione del ponticello e tuffarsi. Vito sta dietro al bancone e prepara dei cocktails da paura. Il suo cavallo di battaglia si chiama Acciaio Inox. È fortissimo, quindi vi consiglio di mangiare pure qualcosa. E infine c’è Maria, che sta in cucina e prepara dei piatti prelibati, ogni tanto esce fuori e viene a dare un bacio a Vito. State attenti a non incrociare mai il suo sguardo, altrimenti potreste squagliarvi.

 

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