Giulia Scomazzon: “Racconto i Millennial e l’alcol tra i bar di provincia"

Si chiama “8.6 gradi di separazione” come il numero scritto in basso a destra sulla birra più stordente che si trova nei bar e nei minimarket. Il titolo gioca con una famosa teoria sociologica che misura la distanza tra le persone. Non è un romanzo sull’alcolismo, infatti, ma sulle relazioni, in primis quella con noi stessi. Fino a che punto siamo disposti ad autodistruggerci, ognuno a modo proprio, pur di svincolarci dalle responsabilità, pur di allontanarci da noi stessi e non sentire il dolore che ci consuma? Molti trentenni nel leggere le disavventure della protagonista, che per gli abusi di sostanze e drink arriva a essere incontinente e a volte ridicola, proverà disgusto, compassione, paura per se stesso, perché Alice, questo il nome, è uno specchio. Ne abbiamo parlato con Giulia Scomazzon, l’autrice che è al suo esordio nella narrativa di fiction - aveva già pubblicato un memoir "La paura ferisce come un coltello arrugginito" - grazie alla casa editrice nottetempo e al lavoro di ricerca e valorizzazione delle nuove penne della letteratura italiana contemporanea Come è nato “8.6 gradi di separazione”? Sono partita con l’idea di scrivere un bestiario in forma di saggio che avesse al centro l’umanità dei bar del Vicentino. Poi i piani sono cambiati e ho deciso di inserire una voce narrante femminile e di strutturarla in maniera più forte, più autentica possibile. Gli altri personaggi sono diventati via via più marginali. Il libro è un percorso, una specie di “coming of age”, fuori tempo massimo, che ha al centro questa donna trentenne fortemente dipendente da alcol e altre sostanze. Al centro il suo viaggio tra i bar e tra le possibilità di cura e di gestione di questo problema, che passa per varie tappe: la psicoterapia, la psichiatria, gli incontri degli Alcolisti anonimi, e così via. Ha sentito il bisogno di raccontare una realtà che le è vicina, perché? Sì, io sono cresciuta nella provincia di Vicenza, ma in realtà il tipo di consumo alcolico, comune a tutto il Triveneto, è normalmente legato alla socializzazione e a un pubblico prettamente maschile. Io invece ho scelto una protagonista donna, giovane, che beve da sola, quindi c'è anche una questione di genere rispetto allo scenario classico e realistico del Veneto avvinazzato, e anche una questione generazionale che ha un impatto sui modi di consumo. Alice torna a casa dopo una lunga esperienza di studio e di lavoro in una grande città, incontra un compagno veneto ed è un ritorno alle radici in questo senso. Ha cose in comune con l’umanità che la circonda ma allo stesso tempo è “eccezione”. Facile sarebbe stato cadere in una rappresentazione macchiettistica di una società che fa dell'alcol quello che altre regioni fanno del cibo. L’alcol è talmente diffuso che ha valenza anestetica più che eccitante. Cosa ci racconta la dipendenza di Alice del mondo attorno a lei? Nel corso degli incontri che sto facendo nelle librerie, mi è stato riferito che funziona abbastanza come specchio al di là della specifica dipendenza, perché poi l'idea è che tutto possa funzionare come una dipendenza in un sistema socio-economico che legittima alcune dipendenze, come l’abuso dei social o il consumismo sfrenato. In questo caso l'idea era parlare di una dipendenza, ma dall'interno e con uno sguardo relativamente lucido per attraversare le proposte di cura e redenzione offerte dalla società e per fare un'interrogazione molto intima sul perché poi questa trentenne, millennial, usi l'alcol. Alice e quelli come lei bevono malinconicamente, fuori dalla logica dell'aperitivo conviviale, che è l'altra faccia dele bere della sua generazione. La risposta qual è? L’alcol è uno strumento per sentirsi al riparo dalle pressioni responsabilizzanti o performative della società. C’è anche un trauma che però rimane completamente sotterraneo, a cui la protagonista fa un cenno vago, ma poi tende a spostarlo e tende a confrontarsi con il mondo, con la sua inadeguatezza soprattutto. Il tono è ironico, Alice ha uno sguardo sarcastico sul mondo e su se stessa, ma l’ambientazione è quella dei “bar di provincia gestiti da cinesi e frequentati da operai, artigiani, ludopatici, pensionati e piccoli spacciatori italiani e stranieri”, quasi noir anche se la trama non lo è. Percepisco così lo spazio in cui sono immersa. C’è anche da dire che è il mio genere preferito anche a livello cinematografico. David Lynch in Twin Peaks è una delle mie principali fonti di ispirazione perché parla di una provincia in cui tanti hanno ansie e turbamenti profondi che vengono sopiti e non esacerbati attraverso l’alcol. La mia protagonista in combinazione con l’alcol assume benzodiazepine perché vuole sentire meno e stordirsi, questo è molto noir. C’è anche l’aspetto sentimentale. Alice viene lasciata, lo si capisce da subito, dal suo compagno, dopo due anni di convivenza. Che ruolo ha l’amore? La fine della relazione è un innesco che permette alla protagonista di confrontarsi con il proprio problema, cosa che sembrava non voler in alcun modo fare prima della rottura. Giacomo è il modello di tutte le altre relazioni. Nella seconda parte del libro, “Precipitazione”, si sciolgono tutti i rapporti che sembravano falsamente sostenerla e aiutarla a sopperire a quello che le mancava davvero. Alice, come tanti, è in crisi con la sua identità, volontà, capacità. Lei nella vita fa l’insegnante nei licei. Pensa che fra 15 anni potrebbe scrivere un romanzo simile sulla generazione di futuri trentenni che ora è sui banchi di scuola? Non vorrei dare una interpretazione troppo pessimista, ma se Alice è mossa da un vuoto che paradossalmente crea spazio e possibilità di movimento, anche se è un movimento vorticoso e fatto anche di cadute, per come vedo le nuove generazioni avverto molta saturazione, come se certe forme di dipendenza avessero riempito gran parte dei loro impulsi desiderativi. A cominciare dal modo distaccato con cui vivono tutto, per esempio le relazioni: questo allontanamento è rassicurante, è un altro modo di sentire le cose ovattate. Non so se potrò raccontare una storia del genere sul consumo di sostanze tra i futuri trentenni ma magari sulla dipendenza da altri immaginari sì. L’obiettivo resta quello di attenuare, ovattare, spegnere.

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Ludovica Passeri