Ultimo respiro, la folle corsa muta del fumetto di Thierry Martin

La cosa incredibile di “Ultimo respiro”, il fumetto di Thierry Martin pubblicato da ReNoir, è la completa assenza di parole. Non ci sono balloon, onomatopee, e non ci sono scritte. Mai, in nessuna pagina. Tutto – dal ritmo del racconto alla costruzione dei personaggi – è affidato ai disegni. E quelli di Martin sono disegni intensi, efficaci, a tratti affilati e a tratti, invece, più morbidi. Si concentrano sugli occhi e sulle facce dei protagonisti. “Ultimo respiro” è un western, e racconta un lunghissimo inseguimento. Che prima si trasforma in uno scontro a due e poi in una resa dei conti totale. È vorace, “Ultimo respiro”. Vorace perché non dà modo al lettore di riprendere fiato, di fermarsi, di capire effettivamente a che cosa sta assistendo. A un certo punto, può venire la voglia di tornare indietro, di sbirciare con più attenzione una pagina. E va bene. Ma per la maggior parte del tempo tutto quello che si vuole è andare avanti e arrivare alla fine. Chi è questo uomo silenzioso, che cosa cerca? Possibile che questa sia l’ennesima storia di vendetta? C’è sicuramente dell’altro. Anzi, deve esserci altro. Un fumetto in divenire Martin vuole farci vivere la stessa tensione e la stessa rabbia del suo protagonista. Ogni tanto, ci dà qualche elemento per conoscerlo meglio – ci sono dei flashback, per esempio, che abbandonano momentaneamente il blu e il nero del racconto e che sono più chiari e soffusi, di un grigiore accogliente, come ricordi lontani che vengono custoditi gelosamente. “Ultimo respiro”, però, è soprattutto un fumetto in divenire, rapido e appassionante. Che invita a voltare pagina, a guardare facce scavate, mani che stringono pistole e coltelli come arpioni e fisici ossuti e slanciati che si tendono nel freddo dell’inverno. Martin ha preso un linguaggio che vive di sintesi e di compromessi tra immagini e parole e lo ha portato al suo estremo. Ha costruito un racconto avvolto dal mutismo, e ha sviluppato in orizzontale i suoi disegni. Paesaggi innevati, case isolate; pistoleri guardinghi. E poi locande, stradine sterrate illuminate dalle torce, cavalli che schiumano, alberi enormi e nodosi, coltellacci che volano nel buio e che si conficcano con forza nella carte. Teste che rotolano via, teste impalate, teste che hanno perso qualunque peso, che si sono fatte leggere e che parlano di avvertimenti. Un'alternanza di nero e blu che dà ulteriore spessore al racconto “Ultimo respiro” è un esempio da studiare. Perché ribadisce brillantemente quelle che sono le possibilità del fumetto e, da un punto di vista più generale, quelle che sono le possibilità dell’immaginazione. La carta non ha limiti. Non davvero. Così come non ha limiti il disegno. Quello che conta è ciò che decidiamo di fare. Il modo, cioè, in cui vogliamo muoverci. Se riprendere la strada di qualcun altro o se provare, con tutto quello che ne consegue, a tracciarne una nuova, solamente nostra. Un’altra scelta interessante che prende Martin è quella dei colori. “Ultimo respiro” non è una bicromia perfetta, perché c’è pure il bianco. Ma l’alternanza tra il nero delle ombre e dei tratti più marcati e il blu che riempie qualsiasi cosa dona al racconto uno spessore ulteriore. Frenesia, furia e violenza cieca Non è un quadro, quello che abbiamo davanti. E non è neppure il tentativo di ricreare qualcosa che, altrove e in un tempo diverso, abbiamo già visto. Grazie ai colori, Martin può giocare con il linguaggio del fumetto e divertirsi a dare alle varie scene una consistenza – come profondità, come taglio; come inquadrature – differente. È una cavalcata, “Ultimo respiro”. Lo dicevamo prima: procede rapidissimo, e non vuole dare al lettore né il tempo né il modo per distinguere nettamente ciò che riempie la pagina. Proprio perché è importante diffondere la frenesia che pervade il protagonista, la sua furia, questa violenza cieca che solo in alcuni istanti trova un qualche forma di equilibrio. Ogni pagina un'inquadratura unica “Ultimo respiro” non è diviso in vignette; le pagine non sono ritagliate, piene di spicchi e di riquadri. Ogni pagina si concentra su un’unica inquadratura e su un unico movimento. Ed è questo che dona al racconto il suo respiro. Siamo soli, immersi fino alle ginocchia nella neve, con i lupi che ci guardano e assassini che non vedono l’ora di avere la loro libbra di carne. Allo stesso tempo, siamo circondati dal verde, forse in montagna, sicuramente in mezzo a un bosco. E saperlo ci dà una prospettiva diversa sulla storia. Ci ricorda che noi siamo piccoli, minuscoli, e che quando ce ne saremo andati, quando avremo esalato il nostro ultimo respiro, il mondo continuerà ad andare avanti come nulla fosse. E quindi una storia di vendetta può trasformarsi in un simbolo, nella nuova epica contemporanea, oppure essere solamente un intreccio di violenza e dolore. La scelta, come sempre, è nostra.

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