Alice Robb: “La danza classica è un microcosmo che amplifica stereotipi e disparità”

Alice ha nove anni quando supera le selezioni per una delle più prestigiose scuole statunitensi di danza classica, la School of American Ballet di New York. Riceve la chiamata a pochi giorni dall’attacco alle Torri gemelle, ma la grande Storia e la tragedia che scorre sotto i suoi occhi non compromettono la felicità pura che prova nell’essere ammessa, dopo due audizioni fallite. Scopre presto, però, che a quelle come lei è riservata l’ultima fila: è troppo alta. Alice invidia le sue “minuscole” compagne di corso, elogiate per la costituzione esile e la bassa statura. Si sente sbagliata. E come se non bastasse, il suo corpo inizia presto a disobbedire: il peso è sotto controllo per via della dieta restrittiva che segue, ma le ossa si allungano e cominciano piano piano a sporgere dai fianchi, delineando delle forme da donna. Il suo sogno, entrare un giorno nella compagnia di professionisti, scricchiola. La ribellione del fisico va di pari passo con l’insofferenza per le pressioni psicologiche, per il conformismo imposto, per il rigore ossessivo. A 15 anni lascia la scuola di danza, relegando la vecchia vita e i ricordi a un angolo remoto. Quell’adolescente insicura oggi è una giornalista affermata, firma di testate come Vanity Fair, The Washington Post, The Atlantic, e ha raccolto in un memoir-reportage “Non pensare, cara” , ricco di digressioni storiche e di citazioni, il diario degli anni in cui ha dedicato ogni singolo respiro alla danza e si è autoinflitta enormi sofferenze pur di raggiungere l’obiettivo. Per l’autrice questa arte è un “microcosmo” in cui si riflette la società e un laboratorio in cui si portano alle estreme conseguenze gli stereotipi e le disparità di genere del mondo in cui viviamo. Alice Robb presenta per la prima volta il suo libro in Italia, al Book Pride di Milano, la fiera dell’editoria indipendente. Cosa le rimane della danza? Quando ho deciso di scrivere questo libro ho frugato tra i cimeli di un tempo. Ho trovato dei brandelli di carta che erano stati utilizzati durante la messa in scena de “Lo Schiaccianoci”, al momento della nevicata, uno spettacolo che per la me bambina ha avuto un’importanza fondamentale. “Lo Schiaccianoci” rappresentava l’opportunità di andare in scena a fianco dei grandi, qualcosa di magico. Cosa ricorda del suo addio? Fui espulsa. Per raccontare come è stato traumatico il mio addio alla danza, invece, non c’è immagine migliore dello scatolone impolverato trovato a casa di mia madre, che vive ancora nello stesso appartamento in cui sono cresciuta. È ricolmo di scarpette consumate e di altre mai utilizzate, con la punta ancora integra, pronte per essere indossate. Tra le ballerine si usa spezzare l’estremità per calzarle meglio. Ecco, quelle scarpette immacolate mi ricordano che da un giorno all’altro ho abbandonato la danza, che non era un hobby, non era un passatempo, era la mia identità. Per anni ho cercato di non pensarci più, ma ha continuato ad avere un ruolo nella mia vita. In che modo? Quando danzavo ricevevo dai miei insegnanti dei messaggi estremi: coltivare l’apparenza, rispettare gli standard, obbedire, non lamentarsi, soffrire in silenzio, mettere a dura prova il mio corpo. Una volta lasciata la School of American Ballet, quando è iniziata la mia nuova vita, ho continuato a ricevere dal mondo circostante gli stessi input, sebbene in forma meno radicale. Questo mi ha portata, per essere accettata come donna, a replicare gli stessi schemi, a non smettere di essere ballerina. La danza classica non fluttua nel vuoto, è parte della società in cui viviamo. Qualsiasi sia la professione che svolgano, le donne sono quotidianamente esposte a tutto questo. Quanto l’ha aiutata la scrittura? Ha cominciato a ronzarmi per la testa l’idea di scrivere un libro sulla danza dopo l’università. Pensavo inizialmente a un taglio accademico, di raccontare la storia di quattro grandi ballerine vissute in epoche differenti, di rimanere così nella mia comfort zone, ma poi i ricordi hanno preso il sopravvento. In fondo, ho sempre tenuto dei diari e degli appunti soprattutto negli anni in cui frequentavo la School of American Ballet. Ho semplicemente aspettato che la mia scrittura fosse matura per cimentarmi con un tipo di narrazione così personale. Il libro è una stratificazione: troviamo il saggio, quindi il progetto originario, poi c’è uno strato di memoir in cui racconto la mia esperienza e poi un altro livello, che è quello delle memorie collettive. È un racconto corale in cui ho dato voce anche alle mie compagne di corso. Qual era il suo obiettivo dal punto di vista narrativo? Quello che mi interessava era parlare del ruolo della danza classica nella nostra cultura. Dal mio punto di vista è un rito di passaggio attraverso il quale passano tantissime bambine e per questo ha un peso non indifferente nella società. Io sono stata una di queste bambine che ha sviluppato un'ossessione: non mi è bastato un normale corso di danza, ho lasciato che questa disciplina fosse sempre più presente nella mia vita. Ero giovanissima, ed il mio impegno era enorme. Non si tratta solo di ore spese alla sbarra, tutti i giorni, anche il sabato, ma di come avevo interiorizzato il mio essere ballerina. Anche fuori dalla sala portavo lo chignon, mantenevo la postura con un grande dispendio di energie, riproducevo lo stesso make-up. Ma quello che mi sembra più importante è che avevo interiorizzato il modello di femminilità. Nel suo memoir racconta la pressione psicologica che ha subito, ma passa in rassegna anche le vicende di molti giganti della disciplina, ballerini e coreografi uomini che sono stati accusati di abusi, sopraffazioni, violenze. Per queste ragioni il libro potrebbe rientrare a pieno titolo in quel “MeToo genre” che si è sviluppato a partire dal 2017, con l’esplosione del movimento a livello globale? Ho finito questo libro all’indomani del MeToo. Quando ci furono le prime denunce e fu aperto il vaso di Pandora, non facevo altro che pensare che presto sarebbero arrivati alla danza classica, perché abusi e molestie, dal mio punto di vista, sono connaturati al balletto. Pensiamo alla Francia del XIX secolo e alle splendide ballerine di Degas: oggi le chiameremmo “sex worker”. Le figure maschili che si scorgono nei quadri sono infatti i protettori che le osservano in modo perverso. Per i tempi più recenti pensiamo alla dittatura instaurata dal grande maestro George Balanchine al New York City Ballet, una sistema di potere ereditato più tardi da Peter Martins che è finito nel mirino del MeToo. Perché le donne restano intrappolate? C’è una cultura del silenzio. La ballerina è educata all’ascolto, non alla parola, deve stare zitta, non deve far rumore ma muoversi ed esibirsi. La danza stessa è un’arte fatta di silenzi. E poi c’è da dire che la competizione è così forte che si è portate a non parlare per non essere sorpassate e sostituite. Se allarghiamo il discorso, ad otto anni dall’inizio del MeToo, qual è il suo bilancio sul lascito di questo movimento di autocoscienza femminile? Il MeToo è stato un formidabile correttivo. Oggi non sono più tollerate cose che nel 2017 erano perfettamente accettate, e non parliamo di un secolo fa. Ora però ci troviamo in un momento di enormi passi indietro negli Usa, con dei politici al potere che non cercano neanche di nascondere la loro misoginia. Temo che la fama di Andrew Tate, influencer machista, sia arrivata fino all’Italia. Quello che è più preoccupante è che riscuote molto successo non tanto tra i boomer ma tra gli adolescenti, sulle nuove generazioni. È un catalizzatore di rabbia repressa. Penso che il futuro per le donne sia incerto. La mia impressione è che il progresso, quando si parla di diritti delle donne, non sia lineare, c’è sempre il rischio di tornare indietro. Da dove parte il cambiamento? Ora siamo in una fase in cui le donne stanno avanzando nella danza. Questo è importante perché l’unico modo per invertire il patriarcato e il maschilismo, con le loro trame di potere, è incentivare la leadership femminile. Fino a pochissimi anni fa era normale leggere quasi esclusivamente nomi di uomini, vivi o morti, sulle locandine dei teatri. Qualcosa nel frattempo è cambiato, molte compagnie si sono aggiornate. Bisogna anche considerare che nel mio libro non mi concentro solo sulle pressioni esterne, ma sulla violenza che si autoinfliggono le ballerine. Credo che negli ultimi anni le donne abbiano imparato anche ad amarsi di più. Eppure, sul palco i rapporti di forza uomo-donna sono quasi sempre sbilanciati a favore della donna, che non è solo musa creativa ma è al centro dell'azione. Non ho voluto scrivere questo memoir per demolire la danza classica. Mi sarei limitata a scrivere degli articoli di denuncia. Ho avuto bisogno di uno spazio maggiore, di un libro, per poter restituire la tensione che vivo, l’amore per questa arte che ancora è forte dentro di me, e allo stesso tempo i traumi. Mi manca il senso di libertà che provavo con le piroette e indossando le punte, quel brivido di elevarmi da terra. Molte ballerine più anziane di me mi raccontano di quanto, sebbene in tempi difficili, la danza sia stata una autentica forma di liberazione e abbia rappresentato un’alternativa al matrimonio e alle costrizioni familiari. Parliamo degli anni Cinquanta e Sessanta. E anche la già citata figura di Balanchine merita di essere analizzata nella sua complessità. Fu un tiranno e al tempo stesso un coreografo che diede alle danzatrici dei ruoli pensati per valorizzare le donne. Un ruolo che da bambina sognava di interpretare? Torniamo al controverso Balanchine e al suo “L’uccello di fuoco”. La protagonista è una donna potente e forte. Monopolizza il centro della scena: con il suo vestito rosso, lancia incantesimi e allontana gli uomini.

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