Irina Turcanu: “I romeni disillusi aspettano il ritorno di un padre”

Irina Turcanu è nata nel 1984 a Gura Humorului, nel Nord della Romania. Giornalista, traduttrice dall'italiano al romeno, che nella sua testa sono "due tonalità delllo stesso colore", Turcanu è in libreria con "Manca il sole ma si sta bene lo stesso", edito da Marsilio, un romanzo in cui racconta un pezzo della sua storia, che di autobiografico ha molto ma non tutto. Come la protagonista del libro di nome Ina, Turcanu ha lasciato la Romania a 17 anni, all'inizio del Terzo Millennio lasciandosi alle spalle un Paese alla deriva, schiacciato dalla difficile transizione economica, e disorientato dal nuovo panorama ideologico del post comunismo. Come Ina, ha fatto i conti tutta la vita con due mondi. Quello da cui è fuggita con sua madre in cerca di una vita migliore e quello che l'ha accolta. L'Italia è prima un miraggio, una promessa di felicità sbirciata attraverso i programmi TV, poi diventa una quotidianità dalle tinte meno sgargianti. Entrambe hanno sperimentato "la fame di sfuggire alle proprie radici, dalla propria eredità genetica". "Manca il sole ma si sta bene lo stesso" svela i meccanismi che fanno della grande storia un acceleratore degli equilibri privati e familiari e si unisce alla lista dei romanzi, tanti in questo 2024, che ritornano sui complicati anni Novanta dal punto di vista dell'Est. Abbiamo parlato con Irina Turcanu nei giorni in cui lo sguardo dell'Europa è rivolto a Bucarest: il primo turno delle presidenziali con il trionfo del candidato populista e filorusso Georgescu sulla candidata liberale ed europeista Lasconi; l'annullamento delle elezioni per possibili interferenze della Russia e l'attesa per quello che succederà nei prossimi mesi, quando il Paese, ora spaccato e fragile, tornerà alle urne. Alla fine è andata a votare? Sono andata a votare, ma ho fatto i “compiti a casa”. Mi tocca studiare per dare un senso e un valore al mio voto. Cosa avverte? C’è tanta paura di un ritorno verso una connessione con la Russia. Paura per questo tipo di legame. E del pezzo di Paese che è con Georgescu cosa pensa? Non è facile riassumere in poche righe un fenomeno che ha radici profonde. Parliamo di oltre trent’anni di mancanza di un leader, di una direzione condivisa, di una coscienza civica nutrita con cura. La Romania dell’ultimo trentennio è stata la terra dei concetti calati dall’alto senza un vero significato. E qui mi riferisco in primis all’idea di democrazia. In un simile clima è facile sentirsi disillusi e desiderare il ritorno di un “padre” che conceda un sonno tranquillo e sereno ai suoi figli. Georgescu si è posto come un salvatore metafisico, ha imbrogliato — affermano le indagini — ma ha fatto comunque leva su un sentire comune; appunto il desiderio del ritorno del “padre”. Aspettative per il prossimo appuntamento elettorale di marzo 2025? Ora una domanda interessante è se saremo costretti a un aut aut: o si sta con le ingerenze russe o con quelle americane. Nei giorni scorsi Lasconi ha indirizzato una lettera a Trump, molto controversa. Come affronta il rapporto con le sue origini? Quello dell’identità è un discorso immenso e complesso. Per una strana casualità, la geografia da cui provengo è una geografia che in qualche modo c'entra con la geografia in cui sono finita in Italia, perché ci sono elementi che si incontrano e una somiglianza innegabile. In Romania abitavo in un piccolo paesino al confine tra l'Ucraina e la Moldova. Sono nata quindi in una terra di confine in qualche modo, una terra proiettata su un altrove ma che allo stesso tempo era interna e periferica. Però queste caratteristiche, il fatto che ci fosse un fiume che la attraversava, il fatto che ci fosse una collina, quindi una sinuosità e che fosse un crocevia sono tutti elementi che poi ho trovato anche qua in Italia, nella campagna di Piacenza. Il mio paesino è in un punto in cui si incontrano quattro province. E questo ha creato un po' una cornice familiare che mi ha permesso di ritrovare qualcosa di casa mia. Vivo in una valle stupenda, amata da scrittori come Hemingway. Non so quanto avesse viaggiato quando disse che era una delle valli più belle del mondo, ma effettivamente la Val Trebbia lo è. Come si convive con questa dualità di cui parla? Nel mio caso ho fatto un po' fatica a trovare la pace. Per tanto tempo ho desiderato essere più italiana degli italiani. Era una richiesta che facevo a me stessa, una ricerca continua, un tentativo di meritarmi lo spazio che stavo occupando. Ha sofferto? Ambivo a parlare un ottimo italiano, volevo scrivere un italiano perfetto. Volevo essere accettata a tutti i costi, anche rinunciando a qualcosa di me. Per cui per tanto tempo non sono tornata in Romania, per tanto tempo mi sono sentita così assillata da questo desiderio che mi sono resa conto che mi faceva star male, perché era come se cercassi di rinunciare alla mia natura. Ho faticato tanto per conciliare queste due nature, quella con cui sono nata e quella acquisita in età adulta. Ci sono studi che suggeriscono che le persone quando cambiano una lingua, cambiano anche un po' atteggiamento e forse in qualche modo inconscio è successo anche a me. Io avevo paura di essere “la romena”. Che impatto ha avuto tutto questo sulla scrittura? Io scrivo in italiano. Ho iniziato un po' per gioco, non in maniera molto consapevole, ma quando sono arrivata in Italia a 17 anni e mezzo ho iniziato a scrivere subito in italiano. Sono finita a lavorare per un giornale provinciale, La Libertà, nel 2002, poco dopo il mio trasferimento. E lì ho trovato una squadra di colleghi che aveva tanta voglia di insegnarmi a padroneggiare la lingua. Ho sviluppato un’incapacità di scrivere in lingua romena, se non cose molto brevi o al massimo accademiche, mentre dall’altro lato riesco a tradurre dall'italiano al romeno con profitto e facilità. Quando traduco, quindi quando mi impossesso delle parole di un altro, magari dette o scritte in italiano, e devo trasformarle nella mia lingua materna, riaffiorano tutte quelle sfumature linguistiche che ho sempre avuto e che continuo ad avere dentro di me. Sono totalmente a mio agio con il rumeno nel ruolo di traduttrice e per questo capace di giocare con la lingua, anche se è diventata forse un po' arrugginita perché sono vent’anni che la utilizzo poco. Le lingue sono vive, se non stai a contatto con loro rischi di perderle. Però comunque riesco ancora a riprodurre quella musicalità, quella capacità armonica di trasformare un testo dall'italiano al romeno. Cosa che invece non riuscirei a fare se mi mettessi a scrivere un romanzo in rumeno. La traduzione che valore ha alla luce di tutto questo? È il legame che mi è rimasto con la Romania che è di tipo primigenio, una dimensione in cui mi sento libera. Ecco perché probabilmente sono capace di tradurre le parole altrui in romeno, ma quando si tratta di parlare di me, quindi di architettare, di mettere alla prova la mia progettualità, ecco, in quel momento fatico a ritrovare le parole in romeno. Mi sento sempre un po' in difetto, con la paura di aver perso in questi vent'anni qualcosa per strada. Non sono più abbastanza attuale, quindi anche i personaggi in qualche modo sono più opachi. Come si spiega, col senno di poi, il desiderio quasi di dimenticare la sua lingua con cui per tanti anni ha fatto i conti? Forse perché avevo letto Emil Cioran troppo presto e Cioran voleva essere più bravo dei francesi a parlare il francese e a scrivere in francese. Quando incontrava colleghi romeni in Francia non voleva parlare con loro in romeno perché “gli disturbavano il francese”. E in fondo è vero, se parlo tanto tempo in romeno ne risente negativamente il mio italiano, quindi per tanto tempo mi sono tenuta a distanza, per tanto tempo ho fatto un po' la guerra questa mia parte che non taceva. Come l’ha superata? Grazie a tanti incontri, soprattutto con italiani che mi dicevano di abbracciare la mia identità e preservare il mio sguardo unico. Lentamente sono riuscita ad accettarmi e adesso ho deciso di fare un dottorato e di farlo in Romania a Bucarest perché volevo avere una parte e portare qualcosa di mio nel mio Paese di origine. Forse è un po' romantica questa idea, ma mi sentivo di trasferire un pezzo del mio percorso che ho fatto in Italia e del mio ruolo in qualche modo accademico che ricopro nell'università di Milano. Questi anni di dottorato in filosofia effettivamente sono stati un travasare costante di qualcosa dall'Italia verso la Romania e questo perché probabilmente sono riuscita alla fine a farci pace o forse stiamo arrivando proprio ora a una pace con queste mie due nature. In quest'ultimo libro però parla molto di Romania, del pre-Italia. Porta il lettore in un’immersione negli anni successivi alla caduta di Ceaușescu. Un’operazione storiografica o psicologica dietro la narrativa? Ho voluto far pace probabilmente, sia con la Romania sia con l'Italia. Volevo ripercorrere in qualche modo la parabola di una famiglia a cui piombano addosso dalla sera alla mattina grandi concetti come la libertà, come la possibilità di fare da sé, senza nessun tipo di consapevolezza, senza aver fatto il passaggio in cui tutto questo si sedimenta gradualmente, e diventa qualcosa di solido: è quello che succede a tanti che arrivano in un altro Paese. Difficilmente hai avuto la possibilità di sedimentare quella cultura, di entrarci attraverso un percorso consapevole. Spesso vieni catapultato. E qualche volta, se ti mancano completamente le basi non riesci a edificare. Ecco, volevo lavorare su questo. Cosa si prova? Cosa si prova a non essere più in un determinato ruolo o luogo che ti determinava e ti permetteva anche di agire in una data direzione? Cosa si prova a essere slegati, sradicati e travolti da grandi concetti che ti piombano addosso, che cosa accade? Cosa succede? Ho voluto ripercorrere questo e cercare di dare una risposta. Che lavoro ha fatto sulle memorie della sua infanzia in Romania? Nell’89, l'anno della Rivoluzione romena e della caduta del regime comunista di Ceaușescu, avevo cinque anni. Non ho ricordi del prima e del dopo, ma solo flash vaghi. Mi tornano in mente soprattutto i cartoni animati. Ce n'era uno che mi ha un po’ traumatizzata, era disturbante. Ricordo un lupo che fumava delle sigarette e rincorreva un coniglietto, questo era il genere di cartoni a cui venivo esposto senza farsi troppu problemi. Poi conservo memorie della scuola, però non ricordo cosa significasse vivere la Romania se non attraverso i racconti dei miei genitori. In tutta questa confusione ho scolpito in testa il giorno in cui abbiamo saputo del crollo del regime di Ceaușescu e poi della fucilazione. Sebbene non fossi consapevole di chi fosse Ceaușescu in quel momento e non fossi consapevole di cosa significasse il cambio di regime, mi ricordo il fermento nel mio paesino di provincia, quella televisione che all'improvviso comincia a distribuire notizie convulse che si riversano nelle nostre case, nelle nostre vite e ci dicono che ci sono "terroristi" che sparano. Non viene detto dove, non viene detto come, non ci viene spiegato che probabilmente in provincia nessuno sparerà a nessuno, ma io sono piccola e confusa. Era con la sua famiglia? Sono a casa con la zia perché la nonna va comunque a lavorare come se niente fosse e mi ricordo che io e mia zia ci nascondiamo sotto il tavolo e mettiamo appeso alla finestra un abito di mia mamma arancione. Me lo ricordo tuttora, era un abito estivo che svolazzava. Fu il nostro modo di metterci al riparo in caso dell’arrivo dei terroristi. Mi ricordo questa invasione della televisione che all'improvviso irrompe nella nostra vita, ma di nuovo senza nessun passaggio intermedio, dal tutto al niente, totalmente senza filtri: senza genitori che si pongano il problema dei piccoli, che si chiedano se è il caso che questi bambini di 5 anni, come nel mio caso, ascoltino queste cose. Ho un ricordo di morte, dei tanti ragazzi che erano stati uccisi, questi infiniti corpi che vengono ripresi dalle telecamere e vengono mandati in onda quasi in loop per raccontare la rivoluzione e mi ricordo che stavamo tutti riuniti davanti alla televisione a guardare queste immagini nell'ultima stanza della camera di mia nonna. Eravamo spaventati e preoccupati più che liberati. Non eravamo felici in quella cittadina di provincia, ma pieni di domande: cosa ne sarebbe stato di noi? Poi la partenza. Si lascia la Romania alle spalle. Mia mamma si sposa in Italia, io sono minorenne e quindi la seguo. Sognavamo un futuro migliore. Ci fu un un cosiddetto “ricongiungimento familiare”. Arrivo qua in collina e inizio immediatamente il liceo a Piacenza, dove mi sento catapultata in un mondo altro. Non capisco la lingua, non riesco ad allacciare rapporti con i miei compagni, perché comunque se non parli una lingua, se non la padroneggi, sembri sempre un po' maleducato e un po' scostante, perché la lingua, se non la possiedi, non riesci a esprimere tutto quello che hai dentro. E quindi diventa molto rudimentale, molto elementare. Con che pregiudizi si è scontrata per il suo essere romena o dell’Est? Io sono arrivata in una piccola bolla in montagna. “I montani” sono abbastanza restii ad aprirsi agli altri ma quando si aprono diventano proprio i tuoi amici più teneri, più intimi. E io ho avuto la fortuna di finire in questa piccola comunità che si è aperta abbastanza facilmente, tant'è vero che mi sono sposata con un ragazzo di Piacenza e abbiamo scelto di vivere qui in montagna ma il forestiero è lui che arriva da Piacenza, non io che arrivo dalla Romania, perché sono qua da così tanti anni che ho acquistato proprio per diritto la cittadinanza da montana. Quando sono arrivata qui, ero terrorizzata da quello che potessero pensare gli altri, e poi vivevo il pregiudizio attraverso i racconti di altri emigrati e quindi mi sono trascinata a questa cosa per tanto tempo. E a proposito di madre, Cristina è una figura centrale nel libro. Il tema della maternità è cruciale. Cristina è una madre grigia che non sta nel bianco né nel nero. Ci sono momenti in cui la si comprende, ci sono momenti in cui non si riesce ad entrare in empatia perché rappresenta la madre dell'Est che cerca di fare il salto di qualità per se stessa - inutile raccontarci balle - e poi in secondo luogo per i propri figli. Un modello alternativo a quello della madre sacrificata e santa con la quale io ho avuto esperienza in Italia. Io volevo raccontare la madre che arriva dall’altrove. Ricordiamo che in Romania il regime comunista aveva creato delle strutture per i bambini molto piccoli, ma erano strutture settimanali: il bambino andava lì il lunedì e tornava il venerdì. Le frequentai anche io e conobbi queste educatrici, dormivamo tutti insieme e vedevo i miei genitori soltanto il sabato e la domenica. Non ero consegnata alle cure della nonna perché anche la nonna lavorava. Si sviluppa un tipo di attaccamento diverso senza coccole e ninna nanna in quellla fase così fragile della tua vita. Emerge una grande conflittualità tra Ina e Cristina, ma c’è qualcosa da salvare? Credo che tante scelte che fa Cristina siano da reinterpretare. Ho cercato di trasmettere una sorta di ambivalenza: la condanno, ma la giustifico e la capisco allo stesso tempo, perché spiego le origini della sua essenza di madre “distaccata”. Tre consigli di lettura di letteratura romena tradotti in italiano per capire questo altrove che non è poi così distante? Direi tra i classici Liviu Rebreanu, un mattone che aiuta a capire le origini della Romania di oggi. Poi c’è l’immancabile Mircea Cărtărescu, mentre per capire l’ironia, che è un altro elemento importante della cultura romena, Cezar Paul-Bădescu che ho tradotto io stessa. Il rumeno è così ricco, così vasto, pieno di influenze, da quelle russe a quelle turche. E per questo ammetto che a volte ho paura a esprimermi in rumeno perché devi padroneggiarlo in un modo che a volte mi sfugge e mette in soggezione.

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