L'ombra non è mai così lontana, Leila Marzocchi: "La memoria è una conquista"

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Gabriele Lippi

Leila Marzocchi - Oblomov

Tra graphic novel e raccolta illustrata di aneddoti e testimonianze, il fumetto intreccia la storia di una zia dell'autrice a quelle dei grandi sopravissuti alla Shoah. "Ci vuole tempo per poter assimilare tutto quell'orrore"

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“La memoria è una conquista”. Leila Marzocchi ha la capacità di rispondere in modo originale alle domande banali, di mostrarti le cose da una prospettiva diversa. Nella giornata istituita per preservare il ricordo del più grande genocidio nella storia dell’umanità, decide di dar peso e valore ai silenzi almeno quanto ne dà alle parole.

 

L’ombra non è mai così lontana (Oblomov, 184 pagine a colori, 20 euro), è una creatura strana. Un po’ fumetto e un po’ raccolta illustrata di testimonianze, citazioni, storie. Biografia che, come una matrioska, racchiude altre biografie, che unisce una storia “piccola” ad altre storie più “grandi”, l’esperienza personale e familiare alla memoria collettiva. Leila Marzocchi da forma con le sue matite alle immagini della Shoah, le unisce alle testimonianze di chi ha deciso di raccontare, e lo fa partendo dal punto di vista di una bambina di sette anni a cui è stato negato il diritto a domandare, e da quello di una zia che solo dopo anni ha trovato la voglia di rispondere. Tra citazioni di Primo Levi, Liliana Segre, Edith Bruck, tra la resistenza di Padre Massimiliano Kolbe e la resilienza di Simon Wiesanthal, si dispiegano la necessità e la fatica del ricordo della pagina più cupa dell’umanità.

Leila Marzocchi - Oblomov

Cosa è la memoria per te?
È una conquista su cui ho lavorato prima con la mente e poi scrivendo il libro. La macchina di sterminio nazista è stata una cosa talmente mostruosa che secondo me per quanto se ne sia scritto e parlato, in tanti comunque hanno taciuto perché non c’erano nemmeno le categorie mentali per descrivere l’esperienza che hanno vissuto. E tanti altri hanno taciuto perché è stato qualcosa di scandaloso, una macchia sulla nostra umanità. È una cosa talmente enorme che secondo me necessita comunque di tempo. Io ho più di 60 anni e almeno dal 2005, quando è stata istituita la Giornata della Memoria, vengo colpita ogni anno da quelle immagini come se fosse la prima volta. Credo che sia impossibile che la storia della Shoah diventi una riga su un libro di testo.

Il tuo viaggio comincia in modo quasi casuale, certamente inaspettato, quando scopri qualcosa di cui nella tua famiglia non si poteva parlare. Come hai vissuto questa scoperta?
Per me è stato veramente scioccante. È stato un segreto per me, in famiglia si sapeva, mia zia lo aveva raccontato ma nessuno ne parlava perché lei non voleva. Era proiettata verso il futuro, non voleva rievocare quell’esperienza. Io allora avevo 7 anni e il lager era un’esperienza così lontana dalla mia vita negli anni 60. Conoscevo la storia di Hitler e dei campi di concentramento, ma quando sentii che mi zia c’era stata fu come una disconnessione del pensiero, ci riflettei parecchio e finii per pensare che avevo capito male. Io ho l’esperienza del silenzio e della rimozione perché l’ho vissuta in prima persona. E forse inconsciamente avevo questo ricordo quando vedevo le immagini della Shoah il 27 gennaio.

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Il silenzio dei sopravvissuti è uno dei temi, se non il tema, al centro di L’ombra non è mai così lontana. Ti sei interrogata sulla sua natura, gli hai contrapposto le parole di chi invece ha deciso di parlare. Alla fine lo hai capito?
Sì. Io l’ho capito scrivendo e disegnando la prima parte del libro, la più dura, quella che parla dei lager e dei campi di sterminio. Inizialmente uno pensa: ma come si fa a tacere di una cosa così enorme? Ci si mette nei panni di chi l’ha vissuta e viene in mente subito di raccontarla. Invece più mi addentravo in questo orrore, più entravo nel problema morale di scegliere le immagini più efficaci per mostrarlo, più mi rendevo conto che non esistevano parole per descriverlo. Gli stessi SS dicevano ai prigionieri che nessuno gli avrebbe mai creduto. La stessa Segre ci ha messo tanti anni a parlarne. E penso che sia così anche per noi che non lo abbiamo vissuto personalmente, è comunque qualcosa che è difficile da assimilare. Per me è stato così e questo lavoro è stato liberatorio. Così come lo fu, per lei, l’intervista che fece mia zia.

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Nel libro affianchi alla storia personale di tua zia le testimonianze dei sopravvissuti alla Shoah. Un’opera di recupero e trasmissione della memoria quasi enciclopedica. Come hai selezionato autori, storie e citazioni?
Devo premettere che molto del nostro lavoro, di noi che facciamo storie si svolge in situazione di non consapevolezza piena. Ho letto i libri che mi sembravano più interessanti ed è come se dentro di me si fosse creata una strada logica in modo abbastanza spontaneo. La cosa che mi ha colpito di più è stata la follia paradossale di quello che veniva vissuto nei lager. Da una parte avevi i pidocchi e le piattole, dall’altra tutto doveva essere regolamentato. Il contrasto tra la macchina del tutto e la follia dell’umanità che si scatenava, come i bambini lanciati in aria per farci il tiro al bersaglio.

La storia che occupa maggior spazio è quella Simon Wiesanthal, il cacciatore di nazisti. Come mai hai voluto darle la parte centrale del tuo romanzo?
Stavo pensando a scrivere la storia di mia zia, avevo il dvd nelle mani, ma per me era così tremenda tutta la storia da sembrarmi troppo. Poi una volta ho visto questa foto, vidi i suoi occhi così profondi e neri, questo viso bonario e ho pensato che dovevo assolutamente scrivere di lui. È una figura di riscatto, non ha solo parlato o scritto, ha agito, e lo ha fatto con un rigore morale assoluto, non ha cercato la vendetta ma la giustizia. Volevo raccontare la sua storia e quella di mia zia, e mentre pensavo a come unire queste due figure così distanti, lì mi è venuto il ricordo di quella volta dalla parrucchiera con cui si apre il libro. Poi la sua storia mi è servita per passare dai lager alla testimonianza di mia zia. In mezzo c’era stato un grande silenzio e raccontare il processo di Eichmann mi è stato utile narrativamente.

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Il libro si apre con il segreto di tua zia, si chiude con lei che decide di parlarne pubblicamente, di aprirsi per la prima volta, di recuperare quella memoria che aveva soffocato. Sembra quasi una metafora…
Sì, il fatto è che secondo me serve davvero del tempo per poterne parlare. Senza fare confronti tra la loro esperienza e la mia, il percorso è lo stesso: si va da questo nodo tossico di trattenere, di non voler credere, di rimuovere, all’apertura e al liberarsi di quell’esperienza. Io spero che sia un percorso generale e che non ci sia il rischio di dimenticare, stiamo ancora ricordando. Quando non ci saranno più i sopravvissuti ora novantenni, ci saranno le generazioni dei figli e dei nipoti, ancora intrise di quella storia.

Leila Marzocchi, L'ombra non è mai così lontana, Oblomov, 184 pagine a colori, 20 euro

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