L'urlo di battaglia de "Il primo Re"

Spettacolo

Denise Negri

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Epico e coinvolgente: un film come non ce ne sono molti in Italia. Matteo Rovere si rifà al mito per raccontare gli albori della civiltà. 

Il bello del nuovo

Ha avuto coraggio Matteo Rovere, proprio tanto coraggio. Gli auguro che “cotanto ardire” venga ripagato dal pubblico e dal mercato estero. Portare a termine un progetto così grande e ambizioso, così dispendioso in termini di tempo e di soldi (9 milioni di euro grazie a una produzione internazionale), percorrere una strada piena di possibili passi falsi e, perchè no, fare un film così insolito nell’offerta cinematografica italiana non sono ambizioni facili da raggiungere, soprattutto se si pensa che il regista romano ha 37 anni. Era emozionato alle interviste per la stampa la mattina della settimana scorsa, teso perché mentre incontrava di buonora i primi giornalisti tv, quelli della carta stampata e delle agenzie vedevano il film. Si respirava insomma un po' un’aria da “Festival” quando registi e attori rimangono con il fiato sospeso fino al momento della fine della proiezione.

Il coraggio e l'amore di due fratelli, tra mito e verità storica

Tutto questo per dire che “Il primo Re” è un gran film, epico, con una violenza feroce ma mai gratuita, impregnato sull’amore di due fratelli, pecorai e che il destino, l’ambizione o il Dio hanno portato a fondare un impero come non ce ne sono più stati, quello romano. La rivisitazione personale certo ma anche “emotiva e realistica”, come Rovere ha detto, della leggenda di Romolo e Remo, passa attraverso un lungo lavoro di studio per rendere tutto il più realistico possibile. Ed è proprio così: lo spettatore viene travolto dal fango, trema di freddo e di paura per il calare del buio e il pericolo di belve feroci. E’ un mondo atavico quello che vediamo, girato vicino a Roma tra Nettuno, Orvieto e Viterbo ad esempio, un mondo in cui il bene e la lotta per la sopravvivenza andavano di pari passo. E’ bello il rapporto tra i due fratelli, è altrettanto bella la scoperta di un volere “altro” rispetto al proprio "io", così come intravedere nell’ambizione dell’uno le basi per un grande impero ma anche quella che sarà la sua stessa rovina. Megli allora perseguire la mediazione, assecondare il volere degli dei, favorire la pace tra popolazioni diverse, tra uomini in cerca di stabilità e condivisione (per quanto questi concetti abbiano senso applicati al 753 A.C).

Se gli attori sono bravi

Vincono sicuramente Alessandro Borghi e Alessio Lapice i due “fratelli” del mito che si sono messi non solo a nudo ma anche in gioco in ruoli che difficilmente ti capitano più di una volta in carriera. Sforzi fisici, duri allenamenti per combattere con le spade, sempre immersi nel fango “fino al collo” anche in pausa pranzo (ci ha raccontato Borghi ridendo, lui che detesta il campeggio) e poi recitare in una lingua “inventata” ma verosimile a quella che probabilmente parlavano le popolazioni di allora, questo protolatino che certo obbliga lo spettatore a seguire i sottotitoli ma che a conti fatti non distoglie assolutamente dal pathos e dalla tensione che si vivono per due ore. Un inno, se vogliamo, anche a una “Natura alla Leopardi”, che è bene ricordare che è su questo mondo da più tempo dell’uomo e che probabilmente ci sopravvivrà. Se smettiamo di distruggerla.

 

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