Come Trump ha fatto naufragare la tassa minima per le multinazionali

È ormai chiaro che il ritorno di Trump alla Casa Bianca segna la fine del tentativo di far pagare alle grandi imprese multinazionali più di quanto attualmente pagano . Facciamo un passo indietro per inquadrare la questione. Negli ultimi decenni le aliquote di tassazione dei profitti delle società sono tendenzialmente scese: nella media dei Paesi OCSE si è passati da un livello superiore al 40% negli anni ’80 del XX secolo a un livello di poco superiore al 20% . Questo fenomeno è stato in buona parte il riflesso della globalizzazione: le imprese sono diventate più mobili da un Paese all’altro e i circa 200 Paesi al mondo hanno iniziato a farsi concorrenza per attirarle, riducendo le aliquote di tassazione e introducendo benefici particolari che, di fatto, abbassavano ulteriormente quanto un’impresa doveva pagare. Questa tendenza ha coinvolto tutte le imprese, ma è stata più marcata per le maggiori, le multinazionali che hanno un più forte potere contrattuale nel trattare con i singoli Paesi e che di fatto pagavano molto meno delle aliquote statutarie. Per risolvere questa situazione serviva un accordo internazionale per ridurre la concorrenza che le varie giurisdizioni fiscali si facevano. Un accordo di questo tipo venne proposto dal ministro del Tesoro americano Janet Yellen all’inizio dell’amministrazione Biden, fu portato avanti dall’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico e venne sottoscritto dai governi di 147 Paesi nell’ottobre 2021. Tra questi vi erano le due più importanti economie del mondo, Stati Uniti e Cina. L’accordo prevedeva due pilastri . Il primo voleva evitare che, attraverso trucchi contabili, le imprese più grandi , spostassero artificialmente i profitti da un Paese a tassazione più alta, dove si svolgeva effettivamente l’attività di vendita, a un Paese a tassazione più bassa, dove era fissata la sede legale. A questo fine, i profitti della multinazionale sarebbero stati riallocati attraverso una formula che teneva conto di dove l’attività economica si svolgeva effettivamente. Questo pilastro fin dall’inizio era però incompleto, per esempio perché si rinviava a future discussioni la definizione della formula da applicare per la riallocazione dei profitti. Il secondo pilastro, applicato alle imprese con un fatturato superiore ai 750 milioni, sembrava avrebbe avuto maggior fortuna anche perché era un accordo “chiavi in mano”: non c’erano ulteriori elementi da chiarire. Doveva solo essere ratificato e introdotto nella legislazione dei vari Paesi. Non solo: era disegnato in modo tale da avere implicazioni anche per le imprese che si sarebbero localizzate al di fuori dei Paesi aderenti, purché ci fossero immobilizzazioni tangibili e dipendenti in tali Paesi: questi avrebbero comunque potuto imporre un’aliquota integrativa per portare la tassazione globale al 15%. Come dettagliato in un recente articolo pubblicato sul Sole 24 Ore, la ratifica del secondo pilastro dell’accordo è proceduta ma, al di fuori, dell’Europa è stata ampiamente incompleta. Nell’UE la direttiva 2022/2532 ne prescriveva l’adozione agli Stati Membri, la gran parte dei quali, compresa l’Italia, si è adeguata. Ma al di fuori dell’Europa la ratifica è stata limitata a una trentina di Paesi. Tra questi mancavano non solo la Cina, che ha, fondamentalmente, tergiversato, ma anche gli Stati Uniti. Sì, perché, nonostante la proposta fosse partita da lì, Biden non aveva i voti in Congresso per approvare l’accordo OCSE e si è dovuto accontentare di una “alternative minimum tax” del 15% che però si applica solo alle multinazionali con profitti superiori a un miliardo di dollari, e che richiede un regolamento attuativo mai approvato. Trump, nei suoi primi giorni di mandato, ha chiarito di non aver nessuna intenzione di implementare l’accordo OCSE e che gli altri Paesi non dovevano neppure pensare di applicare la tassa del 15% alle multinazionali americane. A questa minaccia è seguito l’accordo raggiunto in sede G7 proprio sul fatto che le multinazionali americane sarebbero state lasciate in pace. Ora, 60 tra le più grandi società mondiali per vendite sono americane o cinesi . In teoria, al momento, quelle cinesi potrebbero essere soggette alla tassazione da parte dei Paesi aderenti all’accordo OCSE, ma se gli americani hanno ottenuto un’esenzione, la Cina premerà per un uguale trattamento . La realtà è quindi che anche questo tentativo di imporre almeno una tassa del 15%, se non è defunto, è almeno moribondo. E le probabilità di resuscitarlo sono davvero basse.

Cosa vedere:

Come vederlo:

Online con Sky:

Come Trump ha fatto naufragare la tassa minima per le multinazionali

Carlo Cottarelli