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Lavoro, salvagente per ex Ilva ed ex Embraco

Economia

Simone Spina

Misure-tampone del governo per i lavoratori dell’acciaieria di Taranto e lo stabilimento piemontese della multinazionale brasiliana. Ma i posti a rischio in tutto il Paese sono molti. Da Whirlpool a Gkn, passando per Giannetti Ruote 

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Il governo lancia un paracadute per arginare le crisi dell’ex Ilva e dell’ex Embraco ma la situazione resta esplosiva perché si moltiplicano i posti a rischio in giro per l’Italia. Tanto che il ministro del lavoro Andrea Orlando ha ricordato come sia urgente varare entro ottobre, quando finirà il blocco dei licenziamenti anche per le piccole imprese, la riforma degli ammortizzatori sociali, cioè un complesso di misure che tutelino meglio di ora chi rischia di essere lasciato a casa.

Nel frattempo, si mettono a disposizione altre 13 settimane di cassa integrazione pagate dallo Stato per le aziende con mille o più dipendenti e che hanno almeno uno stabilimento ritenuto strategico a livello nazionale. E’ il caso dell’acciaieria di Taranto, il cui destino è aggrappato a un risanamento ambientale ancora incerto.

L’ex Embraco, invece, potrà accedere alla cassa straordinaria con degli sconti, in modo da avere altri sei mesi per tentare di riconvertire lo stabilimento piemontese dove traballano 410 operai. Sia per la multinazionale brasiliana, sia per l’ex Ilva si tratta di crisi antiche, precedenti alla pandemia.

Si trascina da anni anche il caso dell’americana Whirlpool, che vuole licenziare 340 persone a Napoli, mentre recenti sono gli annunci di esuberi (quasi 600 in totale) per altri due gruppi metalmeccanici di proprietà straniera impegnati nel settore auto: Gkn a Firenze e Giannetti Ruote a Monza.

Qui a preoccupare è anche il fatto che non si sia tentato il ricorso alla cassa integrazione, così come stabilito nell’accordo (non vincolante) fra industriali e governo dopo lo sblocco dei licenziamenti del primo luglio per le grandi imprese.

Si teme un effetto volano, anche se è presto per dire se tutto questo sia dovuto alla fine del divieto di lasciare a casa i dipendenti (peraltro non assoluto) o da altri motivi, fra i quali la volontà di traslocare la produzione in quei Paesi dove i costi del lavoro sono più bassi.