Megaupload mette a nudo i rischi del cloud computing

Economia
Il sito di Megaupload, chiuso dall'FBI
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Il sito chiuso per pirateria era utilizzato anche da utenti che condividevano legalmente video e documenti "pesanti". E adesso qualcuno si chiede: custodire sul web le cose che prima venivano archiviate sul proprio pc è la scelta migliore?

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di Carola Frediani

Niente libertà su cauzione per Kim Schmitz, noto anche come Kim Dotcom, il fondatore di Megaupload arrestato nei giorni scorsi in Nuova Zelanda per pirateria informatica e riciclaggio. Ma mentre l’imprenditore e hacker tedesco aspetta dietro le sbarre il 22 febbraio, giorno dell’udienza sull’estradizione chiesta dagli Stati Uniti, il collasso del suo impero di siti di storage online continua a fare danni collaterali.

Archivio sul web
- A essere disperati non sono tanto gli utenti che sfruttavano il sito per vedersi gratuitamente qualche film protetto da copyright, e che magari si indirizzeranno verso nuovi lidi (anche se il giro di vite, come vedremo, si fa sentire su tutto il web), ma soprattutto coloro che usavano Megaupload legittimamente, per quello che diceva di essere: un sito su cui caricare agevolmente propri contenuti pesanti - video, app, ecc - in modo da condividerli con altri o semplicemente per avere un comodo deposito online. Ebbene, questa categoria di utenti – e a giudicare dalle testimonianze in rete non sono pochi – si è vista sequestrare dall’Fbi americana anche i propri materiali. E difficilmente potrà averli indietro. Ciò significa che chi non aveva fatto un backup di quanto messo su Megaupload può dire addio alla propria roba. E ora certo, tutti a dire che comunque c’era scritto, nei termini di servizio, di fare delle copie dei materiali caricati. E che il sito poteva chiudere in qualsiasi momento.

Ombre e nuvole
- E tuttavia la vicenda getta comunque un’ombra inquietante sulla gallina dalle uova d’oro della rete degli ultimi anni, il cloud computing, ovvero la tendenza a offrire servizi online per tutte quelle cose che prima venivano eseguite in locale, sul proprio pc: dall'email allo storage, dai fogli di calcolo e i documenti di scrittura alla fruizione di musica. Tutti dati che sempre di più tendono a stare nella nuvola prodotta dai server remoti di società apparentemente affidabili. Ma su cui può mettere mano, da un giorno all’altro, il Dipartimento della Giustizia americano, per dire. “Il caso Megaupload ha appena provato che i VOSTRI dati NON SONO SICURI nel cloud. Il governo può semplicemente sequestrare i vostri dati :-( quando interviene su un'altra azienda”, ha twittato l’hacker Kevin Mitnick. Un concetto ripreso anche dall’esperto di sicurezza informatica Paolo Attivissimo che scrive: “La validità delle accuse degli inquirenti statunitensi nei confronti di Megaupload è, in questo senso, del tutto irrilevante. Chi usa il cloud puro rischia comunque di vedersi sparire tutto senza preavviso; chi usa soluzioni ibride, con copia locale, corre un rischio minore, ma deve tenere presente che in qualunque momento la copia remota può svanire”.

Il modello del cloud computing - A lanciare l’allarme è anche una rivista dei manager IT, che si chiede: “Il Patriot Act  (la legge antiterrorismo che ha esteso i poteri di intervento degli inquirenti, ndr) dà al governo Usa la possibilità di accedere troppo facilmente ai dati immagazzinati nei sistemi cloud dei provider americani, indipendentemente da dove si trovino quegli stessi server?”.  E mentre qualcuno ipotizza che la vicenda possa compromettere del tutto il modello di business del cloud computing, gli effetti del blitz contro Megaupload si allargano, come un cerchio nell’acqua, a molti altri siti. Servizi di file-sharing quali Filesonic e Fileserve hanno disabilitato le loro funzioni di condivisione così come i programmi di ricompensa degli utenti più attivi, quelli i cui upload producono, da parte di altri, molti download. Sembra un gioco di parole ma di fatto si tratta di quel meccanismo che, secondo chi lotta contro la pirateria, favorisce la diffusione illegale di contenuti protetti. Altri, come UploadBox, hanno chiuso i battenti, avvisano che elimineranno a breve tutti i contenuti e invitano, bontà loro, gli utenti a scaricare i propri file; altri ancora, come il noto Rapidshare, sostengono a voce alta di non correre alcun rischio, e suona come una scaramanzia. Mentre i dubbi sulla affidabilità del cloud coinvolgono anche servizi insospettabili come Dropbox.com. Perché ora la paura è di affidarsi a una nuvola e di ritrovarsi con una doccia fredda.

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