Gli Italiani e il rapporto con le armi, cos'è cambiato: sport, gioco e rischi

Un punto lo chiarisce subito: “Non è detto e non sappiamo se la risonanza emotiva dei fatti di cronaca corrisponda effettivamente a un aumento oggettivo dei numeri”. Inizia così la chiacchierata con il Professor Carlo Alfredo Clerici, docente di Psicologia Clinica all’Università Statale di Milano, psicoterapeuta e grande studioso del rischio di abuso di armi legalmente detenute in base ai processi mentali. La questione in Italia è certamente rilevante dato che, come emerge dalle stime della Polizia di Stato relative al 2023, sono circa 4,7 milioni gli italiani che detengono almeno un’arma o che la utilizzano per scopi ricreativi o sportivi, per un totale stimato dagli esperti in circa 10-12 milioni di armi da fuoco. La verifica dei requisiti d’idoneità psicofisica per ottenere un porto d’armi o un nulla osta diventa dunque inevitabilmente centrale, perché sono proprio medici di medicina generale, psichiatri e psicologi a dover gestire situazioni cliniche di pazienti potenzialmente a rischio di azioni suicidarie o omicidiarie “senza poter accedere, però, a informazioni sull’eventuale detenzione di armi dai loro assistiti” spiega Clerici. L'idoneità psicofisica “Il tema delle armi suscita sempre atteggiamenti contrastanti e questo non ha probabilmente giovato alla conoscenza scientifica del fenomeno e delle possibilità di prevenzione – sottolinea il professor Clerici – In Italia la ricerca è stata ostacolata anche dalla mancanza di dati fondamentali quali il numero di armi legalmente detenute nei diversi anni dai cittadini, sebbene il problema della valutazione psichica in materia di armi sia rilevante e probabilmente lo sarà anche nei prossimi anni”. Migliorare i metodi di prevenzione senza comportare aggravi al Sistema Sanitario Nazionale e ai cittadini sarebbe, per queste ragioni, una priorità, precisa Clerici. Attualmente la legge prevede per il rinnovo del porto d’armi e per il nulla osta una doppia certificazione medica, quella di un medico di medicina generale prima e di un medico legale entro 90 giorni dalla prima, da rinnovare poi ogni 5 anni. “Il punto – spiega Clerici - è se 5 anni sono troppi o troppo pochi. I fenomeni pericolosi infatti non coincidono sempre con la patologia e la patologia mentale ha un andamento nel tempo che può essere estremamente più rapido dell'evolversi di 5 anni”. E se nel corso dei 5 anni dovessero per esempio intervenire eventi traumatici nella vita di una persona, come per esempio un lutto, una separazione, la perdita del lavoro? Eventi che potrebbero minare quell’idoneità psicofisica e portare a vere e proprie tragedie che nel tempo hanno riempito le pagine di cronaca. “Il tema è legato anche alla sensibilità del clinico che può percepire degli elementi di allarme e quindi intervenire di sua iniziativa, ma questo richiede anche un'esperienza specifica difficile anche per il numero relativamente esiguo che caratterizza questo fenomeno. Ovviamente poi basta un caso per essere una tragedia di portata enorme e quindi è difficile che gli operatori riescano ad avere un'esperienza estesa sulla gestione di questi casi. La collaborazione, anche informale, con le forze dell'ordine è molto importante e lo è anche la capacità di porsi delle domande clinicamente cruciali. Si tratta di tematiche delicatissime che richiederebbero anche una formazione tecnica e dei dati di ricerca per poter capire la diffusione di questo fenomeno, dati che però non sono particolarmente abbondanti. La gestione di queste situazioni comunque non è sistematizzata, non esiste in realtà un meccanismo automatico e questo è uno degli aspetti in cui si dovrebbe migliorare sia la formazione che la prassi”. I giovani e le armi È la cronaca inevitabilmente a portare a interrogarsi su una serie di fenomeni. I fatti accaduti di recente nel napoletano, con tre giovanissimi uccisi da colpi di arma da fuoco, ci porta a chiedere al professor Clerici se e come il rapporto dei giovani con le armi sia cambiato. “Sicuramente nel tempo c’è stato un cambiamento di atteggiamento dei giovani nel rapporto con l'arma. Un tempo questo rapporto passava attraverso una procedura ritualizzata che era il servizio militare oppure l'apprendimento della caccia con un adulto di riferimento che poteva essere il padre o il nonno di un giovane uomo. L’avvicinamento all’arma rappresentava una sorta di rito di iniziazione tra un soggetto in crescita e un adulto, rito che appunto aveva le sue regole e le sue responsabilità. Oggi invece l'approccio all'arma da fuoco è spesso mediato dalla fantasia o dal videogioco ed espone il giovane, spesso in un’età non sufficientemente matura, a una responsabilità e autonomia molto diversi da un tempo e quindi con aspetti problematici. Non saprei dire se era meglio prima ma sicuramente oggi è molto diverso, oggi viene meno una mediazione di gruppo e culturale che aveva una funzione molto importante in passato”. Non stupiscono, secondo Clerici, i numeri relativi alla detenzione di armi nel nostro Paese. “Nel nostro Paese ci sono tradizioni come la caccia che è largamente praticata, molte persone hanno deciso di mantenere la detenzione dell'arma come ricordo perché magari hanno ereditato il fucile dal nonno che era cacciatore. Diverso è per le tematiche di sicurezza o di insicurezza percepita dove all'arma viene attribuita una funzione che può essere utile ma può anche estremamente problematica. Nel nostro Paese comunque le concessioni di porto d’arma per difesa negli anni si sono è ridotte estremamente. A partire dagli anni '70 nella normativa delle armi c'è stata una spinta fortemente restrittiva, e oggi credo che le concessioni siano pochissime e tutte per giustificati motivi”. L'importanza di fare ricerca Tutte le questioni emerse mettono di fronte a un quesito, spiega Clerici, e cioè “se sia più giusto limitare le armi da fuoco o invece poter dare delle risposte a condizioni di sofferenza psichica che richiederebbero interventi precisi, anche perché in realtà, aldilà delle armi da fuoco, di disponibilità di mezzi ne esiste una gamma infinita”. Sulla necessità di migliorare il monitoraggio di alcune situazioni potenzialmente critiche il professor Clerici non ha dubbi: “Ci sono certi aspetti comportamentali che dovrebbero essere accompagnati da misure di cautela importanti. Spesso protagonista di storie drammatiche non è il cacciatore ma piuttosto la guardia giurata a cui la pistola serve per lavoro, e quindi in casi come questo ci si trova dentro un groviglio di valutazioni tra cui per esempio quella che il ritiro di un porto d’arma potrebbe implicare la perdita del lavoro del soggetto e il conseguente venir meno al pagamento degli alimenti nel caso di separazioni… Di certo questo è un tema che andrebbe risolto anche con un investimento concettuale e di ricerca, non solo nel momento in cui scoppia il caso, perché negli anni è stato così. Per anni i provvedimenti di riforma andavano sull’onda delle emozioni e poi certi decreti attuativi non sono mai stati fatti, così come nel tempo sono cadute anche le revisioni dei criteri di idoneità sanitaria”.