Fine vita, la battaglia perduta di Martina Oppelli

Martina Oppelli è morta. Non è riuscita a portare a termine la battaglia che aveva iniziato a combattere anni fa, quando insieme all’Associazione Luca Coscioni aveva cominciato un accidentato cammino fatto di domande per accedere al suicidio medicalmente assistito. Quando l’abbiamo intervistata per il podcast Cose di Oggi, nel novembre scorso, ci era sembrata fatta d’acciaio; era animata, in maniera serena ma ferrea, da una incrollabile voglia di giustizia, di vedersi riconosciuto un diritto che riteneva inalienabile: quello di decidere dove, come e quando morire. Martina era malata di sclerosi multipla secondaria progressiva da vent’anni: una malattia progressiva e incurabile che, secondo lei e l’Associazione Coscioni, soddisfaceva tutti e quattro i requisiti previsti dalla sentenza della Corte Costituzionale che ha, di fatto, depenalizzato nel 2019 l’aiuto al suicidio. L’ASL di competenza, però, ha ritenuto il contrario e per tre volte, ha respinto la richiesta di Martina di poter accedere al suicidio medicalmente assistito. Quando l’abbiamo incontrata, Martina era all’indomani del secondo rifiuto e non riusciva a spiegarsi per quale motivo le autorità sanitarie regionali le avessero impedito di accedere a una morte dignitosa. La malattia la costringeva sulla sedia a rotelle, immobile, senza avere la possibilità di muovere altro se non gli occhi e la bocca. Amici e conoscenti la aiutavano e si davano il cambio per stare con lei, in una sorta di responsabilità collettiva che trascendeva la sua condizione fisica. La ASL, motivando il rifiuto dell’accesso al trattamento, disse che non era soddisfatto - in particolare - il quarto requisito previsto dalla sentenza, quello che prevede la dipendenza da trattamenti di sostegno vitale. In pratica ha ritenuto che, siccome Martina non era attaccata a nessuna macchina che la nutrisse o la aiutasse a respirare, non fossero presenti trattamenti di sostegno vitale. Dimenticando, però, che -cito Mario Riccio, anestesista e medico che ha accompagnato Piergiorgio Welby nel suo ultimo viaggio-: “Se qualcuno non la aiuta a urinare, la vescica scoppia e lei muore; se qualcuno non la aiuta ad andare di corpo, l’intestino scoppia e lei muore. O, più banalmente, se nessuno la aiuta a mangiare e bere, lei muore”. Senza parlare dei farmaci, che non poteva assumere autonomamente, e della dipendenza dalla macchina della tosse, senza la quale sarebbe morta soffocata. Oggi, la proposta di legge della maggioranza di governo sul fine vita giace in Parlamento. Il Senato la dovrebbe approvare a settembre, perché poi passi alla Camera. È un testo probabilmente un po’ indeciso, in alcuni punti addirittura più restrittivo rispetto alla sentenza della Corte Costituzionale, ma sarebbe comunque una legge dove adesso non ce n’è una. Rimarrebbe in piedi, ovviamente, il tema di costituzionalità di una norma che non risponde alle linee guida della sentenza della consulta. Martina aveva avuto luce verde dalla clinica svizzera dove oggi ha deciso di morire diversi mesi fa, ma la sua scelta -una volta certa che qualcuno l’avrebbe aiutata- era stata una scelta di lotta: “Voglio rimanere qui per vedere se riesco a morire nel mio paese”, ci disse. Non c’è riuscita. Non ce l’ha fatta, ha fallito. Quest’ultima battaglia Martina Oppelli l’ha perduta. E, insieme a lei, tutti quelli che pensano di avere il diritto di decidere della propria vita. E della propria morte.

Cosa vedere:

Come vederlo:

Online con Sky:

Fine vita, la battaglia perduta di Martina Oppelli

Emiliano Scalia